Da Venezia a Las Vegas La clonazione di edifici nell’era del copia incolla

Se nell’arte il fenomeno della copia vanta una ormai lunga tradizione, a partire dal XX secolo questo è deflagrato soprattutto in architettura, al punto da scatenare un aspro dibattito tra i teorici del «com’era, dov’era», forti del significato intrinseco nella memoria storica, e gli scettici che vi intravedono una mancanza di coraggio.
Su questi temi di stringente attualità esce per Jaca Book il saggio La clonazione architettonica scritto dalla storica dell’arte spagnola Ascensión Hernández Martínez, specializzata peraltro in teoria del restauro. In passato nessuno si scandalizzava se pittori accademici si recavano in visita nei musei per replicare i capolavori antichi. Anzi, lo stile dell’inautentico è diventato un’abitudine, al fine di tutelare la salute dell’opera autentica, ben rinchiusa nel caveau di una banca, al riparo da sguardi indiscreti e malintenzionati. Soprattutto gli americani, privi di tradizione classica, nell’Ottocento abbellivano le loro grandi case con falsi fondi oro, croste ben fatte di maestri rinascimentali, impressionisti e quant’altro. Per la Martínez copiare non solo non è affatto condannabile, ma addirittura un gesto spontaneo nella vita quotidiana: «Copiamo programmi di computer, dischi, film, facciamo fotocopie, scannerizziamo immagini, fino al punto che la copia e il ricorso alla citazione sono divenuti metodo di lavoro abituale tra i creativi, tratto tra i più caratteristici della società postmoderna. Oggi il falso, la citazione, l'appropriazione, il riferimento, il plagio hanno oltrepassato la frontiera dell’illegale, rivendicando validità artistica specifica».
E in architettura? La questione qui si pone in termini differenti. Talora le riproduzioni si mostrano necessarie, in particolare nei casi di ricostruzioni postbelliche o seguite a disastri ambientali (si pensi al terremoto abruzzese); altre volte sono conseguenza di restauri particolarmente complessi, dove forse converrebbe rifare di sana pianta invece che sforzarsi di mantenere. Oppure sposano interessi di natura turistico-economico, e allora il concetto si muta geneticamente nel business del parco a tema, per cui non sarà strano l’apparire improvviso di una falsa Venezia a Las Vegas.
L’architettura è legata a doppia mandata al tema della memoria. I seguaci sostengono che sarebbe un crimine cancellare le ragioni antropologiche e ambientali di un monumento del passato. A tale casistica appartengono le ricostruzioni del Globe Theatre a Londra, rifatto seguendo le tecniche artigianali del ’500, e del Teatro La Fenice a Venezia, bruciata nel 1996 e riaperta nel 2003, contro la quale polemizzò Bruno Zevi, dichiarando l’immaturità della cultura architettonica contemporanea. Atteggiamento che è evidente conseguenza del postmoderno, dove la storia ha assunto un ruolo così fondamentale fino a spingersi alla sua mitizzazione che, per i critici, equivale alla «feticizzazione consolatoria dei suoi prodotti, a una desolante sfiducia nella capacità creativa della cultura e della società attuali».
Nonostante gli anni Zero abbiano imposto la figura delle archistar quali indiscutibili maîtres à penser - ma ci sarebbe da osservare quanto siano proprio loro i cloni di se stessi - il perpetrarsi di tale atteggiamento conservatore impedisce di fatto il maturare di un autentico paesaggio architettonico del XXI secolo. Invitati a frotte nel nostro Paese, questi «big» impongono il loro segno senza alcuna relazione con l’ambiente e la storia perché si ritengono artisti da non mettere in discussione. Tra archistar e replicanti - sembra davvero di vivere nell’epoca di Blade Runner - ecco farsi largo il fenomeno dell’«anastilosi», ovvero la ricostruzione di antichi edifici, ottenuta mediante la ricomposizione, con i pezzi originali, delle antiche strutture, pezza d’appoggio teorico per chi osteggia la contemporaneità. Su tale tendenza si esprimono negativamente i giovani architetti - valga per tutti l’esempio dello studio brh+ di Torino fondato da Marco Rainò e Barbara Brondi e censito dalla rivista Domus tra i più innovativi in Italia - che si dicono contrari alla ricostruzione di un ambiente quando venga a mancare il presupposto di originalità. Si parla dunque di architettura ricreata e non creata, che non riesce a concepire la contemporaneità come una risorsa, scivolando invece nella ripetizione di un modello vecchio destinato a prevalere sempre sul nuovo.
La clonazione è dunque un’aberrazione? La questione è davvero ostica, perché se da una parte vanno certamente lodate quelle ricostruzioni del dopoguerra in Italia, il Ponte Vecchio a Firenze, il Ponte di Bassano, il Ponte Scaligero a Verona, l'Abbazia di Montecassino, utili a preservare la bellezza delle nostre città minacciate «dal cretinismo della creatività» (dice la Martínez), al contrario la discontinuità storica, ovvero una città concepita come sovrapposizione di segni contrastanti, appare la soluzione più interessante.

Perdutosi per strada il principio dell’autenticità, dobbiamo necessariamente intrattenerci a questionare se sia stato giusto o meno ricostruire il Padiglione di Mies van der Rohe a Barcellona distrutto nel 1930, oppure i prototipi di abitazione standardizzata di Le Corbusier, trasformati in altrettanti feticci della modernità.

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