nostro inviato a Guangzhou
«Guangzhou è sempre stata la porta della Cina, nel bene come nel male. Trafficavamo con l’Occidente quando per Pechino lo straniero era ancora il diavolo. È per questo che noi siamo più avanti rispetto al nord del Paese e infatti la liberalizzazione economica di Deng è partita da qui. Negli Stati Uniti, in Europa, i cinesi che trova sono in prevalenza cantonesi, come dite voi, del Guangdong, come diciamo noi. E la cucina cantonese, che è risaputo essere la migliore, è quella che trovate nei vostri ristoranti cinesi di Milano o di Parigi... Ma non mi ha ancora detto se le è piaciuto il serpente!».
Il nome cinese di Kevin è Wei Jun Li, dove Wei sta per grande, Jun sta per bello e Li è il cognome, una sorta di Signor Rossi o Signor Bianchi, tanto è comune, uno dei «vecchi cento nomi» di cui la Cina si compone. Scritto in pittogrammi, Kevin si legge come vittoria e come ben educato e quindi in qualche modo si avvicina al senso del vero nome, spiega perché sia stato scelto e consente di capire, per analogia, il complicato sistema per cui un cinese si ribattezza Joyce o Kelly o Marlene, un sottile lavoro di significanti e di significati... Fuori piove, il cielo sopra Canton, come da nostalgico mi ostino a chiamare Guangzhou, è grigio, grigio è il Fiume delle Perle che ci scorre a fianco e in pratica la città è sospesa in un’umida bolla grigia. «Sento un gran caldo dentro» dico a Kevin. «Sì, sì» grida entusiasta. «È l’effetto del serpente, è una carne molto calorica. Adesso però deve assolutamente assaggiare un liquore fatto mischiando all’alcol di riso il sangue del cobra, o almeno credo. So che si incide la vescica e...». Alzo le mani e prego di avere abbastanza tempo per poter vomitare con comodo in albergo.
Rispetto a Shanghai, Canton è meno artificiale. Rispetto a Hong Kong, è più cinese. Rispetto a Pechino è più aperta. La grande libreria «Nuova pagina» di Tianhe Road sovrasta per contrasto quella all’insegna dei libri stranieri di Wangfujing Dajie nella capitale, un piano intero, dei quattro di cui si compone, di romanzi e saggi in lingua inglese che spaziano dalla biografie alla storia contemporanea. Nel Novecento cinese Canton ebbe un ruolo centrale, così come del resto lo aveva avuto un secolo prima, sia pure per altri motivi. Nel 1839 la «guerra dell’oppio» scoppiò perché l’inflessibile Lin Zexu, inviato dell’imperatore in città, dopo aver scritto una lettera alla regina Vittoria in cui le diceva che essendo quella droga vietata in Inghilterra non si capiva perché dovesse andar bene per la Cina, sospese ogni attività di import-export, diede ai commercianti cinesi che avevano il monopolio del traffico, i Cohong, tre giorni di tempo per consegnare la merce proibita giacente nei magazzini, mise sotto arresto i compratori europei.
Allora gli stranieri stavano nell’isolotto di Shamian, che vuol dire distesa di sabbia, una striscia lunga poco più di un chilometro e larga la metà. Dopo che quella guerra finì rovinosamente per i cinesi, inglesi e francesi aggiunsero alle sedi commerciali, banche, club, stazioni di polizia, un paio di chiese e molte ville e a cavallo del nuovo secolo Shamian era architettonicamente un’enclave europea di cui sopravvive ancora un buon cinquanta per cento, sottoposto a vincolo delle belle arti e che ora ospita alberghi, ristoranti, gallerie d’arte, abitazioni private... Nella storia della complicata frequentazione con gli occidentali ci fu anche spazio per quella che, pochi anni dopo, si chiamerà la rivolta dei Taiping: il suo capo, Hangxiuquan, dopo aver letto degli opuscoli cristiani, si mise in testa di essere il fratello cinese di Gesù Cristo, occupò Nanchino, quasi conquistò Pechino e giunse ad avere un esercito di un milione di seguaci...
Il nuovo secolo fece di Canton la culla della rivoluzione. Mossero lì i primi passi Mao, Zhou Enlai, Chiang KaiShek. Sun Yat Sen la scelse come capitale del governo repubblicano. Il sindacalismo trovò spazio in quello che era allora il primo porto della Cina, e nel 1926 il celebre «sciopero dei coolies» lo tenne bloccato per 16 mesi. Due anni dopo, la Comune operaia di Canton finì in un massacro, con i comunisti che prima favorirono l’insurrezione e poi, per il contrordine di Mosca, lasciarono che i nazionalisti la soffocassero nel sangue.
Questo piccolo assaggio di passato aiuta a spiegare meglio il rapporto con Pechino: la capitale ne diffida, ne ama poco l’intraprendenza e l’indipendenza ed è ricambiata da un sentimento di superiorità e di diversità che la lontananza, la differenza della lingua (il cantonese e il pechinese se si parlano non si capiscono) accentuano. Non è un caso che durante la Rivoluzione Cultuale la regione del Guangdong sia stata quella presa maggiormente di mira, e non è un caso che Lin Biao, dopo il fallito tentativo di assassinare Mao, abbia pensato per un attimo di fare di Canton il centro della sua controrivoluzione.
Di questo Kevin, l’uomo del serpente, sa poco. Ha meno di trent’anni, ha fatto un master alberghiero a New York, gestisce una rivendita di sigari cubani per il «Cigno bianco», un hotel mastodontico che al suo interno ha persino una cascata. Le ragioni della superiorità di Canton sul resto della Cina lui le trova nel fatto che è uno dei tre aeroporti più importanti, e quello che costa meno («siamo imbattibili come prezzi», mi dice felice). Che è il più grande porto come volume di traffico, 150 milioni di tonnellate, che la sua Fiera commerciale è un’attrazione, che il suo essere «zona economica speciale» è la riprova dell’intelligenza dei suoi abitanti e quindi della propria.
A lungo considerata la città più inquinata e più caotica della Cina, nell’ultimo decennio Canton ha fatto molto per perdere questo primato. Si sono costruite linee di metropolitana, strade sopraelevate, si è lavorato a una viabilità che avesse un minimo di logica. Il risultato rimane imbarazzante per un europeo, però Kevin trova la situazione molto migliorata e sicuramente ha ragione lui. Quello che colpisce andando in giro, è il contrasto fra vecchio e nuovo, perché, a differenza di Pechino, e in parte di Shanghai, qui si è proceduto più per assemblaggio che per trasformazione radicale e i grattacieli e i grandi magazzini sovrastano palazzi anni Cinquanta con i panni stesi ad asciugare alle grate delle finestre, stabili che sembrano gabbie per famiglie, negozietti bui dove si vende di tutto e dove non si smette mai di vendere. «Sì, qui è tutto aperto, ventiquattro ore su ventiquattro», mi dice Raffaele De Gregorio, cinquant’anni, italiano, da trenta in giro per il mondo, da dieci in giro per la Cina. Gestisce un ristorante che si chiama «La dolce vita», ricavato nella sede di quello che a fine Ottocento era il posto di polizia francese di Shamian. «Mi ci sono voluti sei mesi per avere il permesso. Adesso sono molto attenti in materia». È un bel locale, anzi, come lo definisce lui, «una bella bestia: tre piani, due terrazzi, un wine bar».
Raffaele ha lavorato anche a Pechino, e in fondo la capitale gli è rimasta nel cuore. «I cantonesi sono più testardi e, nonostante quello che si dice, meno aperti. Pensano agli affari e basta, non fraternizzano. Se non fosse per il clima, sarebbe comunque un posto ideale per lavorare. Sono buongustai, gli piace spendere e fare girare i soldi, tutto funziona, se stai alle regole nessuno ti disturba. C’è anche povertà, naturalmente, come in tutta la Cina. Ma Canton ha anche la particolarità di essere un porto, di fare da richiamo per chi viene dalle campagne, e poi c’è stata la chiusura di alcune fabbriche e quindi più mano d’opera su piazza. Cento euro al mese è un buono stipendio, e questo aiuta anche a capire di che stoffa sia fatto il miracolo cinese. Sono un po’ come eravamo noi nel dopoguerra: tanta voglia, tante speranze, tanta euforia. Qui io urlo molto, perché il cinese non è duttile: io sono di Capri, se avessi tre napoletani, uno per piano, funzionerebbe tutto senza sgolarsi! Urlavo anche a Pechino, ma meno.
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