«Vent’anni a Pontida dai pannolini di Renzo alla giunta regionale»

Tutto è cambiato ma è tutto come allora. Monica Rizzi aveva 16 anni e mezzo quando da Darfo Boario Terme, capitale della Valle Camonica, prese la strada di Pontida. Dove oggi tutto si ripete e si celebra. Da marzo la Rizzi è assessore regionale allo Sport e ai Giovani, unica donna dei «Formigoni-boys». Nel suo accento, nei suoi ricordi c’è tutta la parabola della Lega. Il Carroccio ne ha fatta di strada, fino ai ministeri, ai governatori, e alla valanga di voti di marzo. «Allora eravamo un po’ come dei carbonari», sorride Monica. Lei a 22 anni era già consigliere comunale di minoranza. «Ricordo i miei primi anni. I consigli comunali con i democristiani, i comunisti, mi mettevamo anche soggezione. Ma eravamo sfrontati, sicuri di noi, E studiavamo».
Pontida, Ponte di Legno e Venezia. Sono i punti cardinali della strategia leghista. A Pontida i leghisti si trovano dal 1990 per i loro raduni. «Allora eravamo in pochi, oggi si parla di 200 pullman - riflette Monica - ma è come è una grande famiglia. Io a Pontida sono sempre stata l’addetta alle patatine fritte. Ma ci sono anche gli studi sulle nostre culture. Ci incontriamo, ci ritroviamo. Gli amori, i lutti, le nascite». Come una famiglia, appunto. Renzo Bossi a Ponte di Legno praticamente ci è nato: «Io me lo ricordo che aveva un mese. Me lo ricordo con i pannolini. E a Pontida ho l’immagine di lui che guarda il palco incantato e dice con orgoglio “quello è il mio papà”».
Sì, quando parla Bossi si ferma tutto, anche le patatine. La folgorazione leghista di Monica risale al 1986. «A scuola, chissà come, un compagno portò un volantino leghista, un A4 tutto stropicciato che cominciò a fare il giro della classe». Su quel volantino parole mai dette e mai lette dalla politica «che faceva soggezione»: leghe, federalismo, identità. «Due settimane dopo, Umberto Bossi teneva un incontro in un ristorante fra Seriate e Bergamo. Andai a sentirlo con due amici. Uno di loro chiamò a casa per avvertire i miei che non saremmo tornati a cena. Ci fermammo. Eravamo quindici, e ne uscimmo con un tesserone di cartone. La mia prima tessera leghista». In casa Rizzi fu una specie di tragedia. Famiglia democristiana doc, commercianti. Nessuno capiva. «Per i miei era solo una perdita di tempo. “Cambia qualche fidanzato la ma Lega no” diceva mia mamma». Solo il nonno capiva. «Era cieco, io ero i suoi occhi. Gli portai le cassette di Bossi, lo stette a sentire a lungo e poi mi disse “ma lo sai che non hai mica tutti torti, qualche buona idea ce l’ha questo Bossi».
Idee eretiche, o profetiche. Erano già tutt’uno con lo stile leghista: diretto, popolare, per qualcuno anche rozzo, ma quelle parole si infilavano sotto i riti e i canali tradizionali della paludata comunicazione politica, e circolavano da una valle a un paese. Da un ristorante a un magazzino-sezione: «Non posso dire che fu il federalismo a colpirmi - ricorda Monica - io ero appena uscita dal collegio delle suore dorotee, da interna. Non avevo mai sentito parlare di politica. Era questione di istinto, di appartenenza. Ma Bossi era sorprendente affascinante, era nuovo. E c’era qualcosa in quei discorsi che andava oltre le parole». Qualcosa che aveva a che fare con simboli, identità e tradizioni. «Per noi i simboli sono importantissimi. Come l’identità, le ragioni e i diritti dei nostri territori e della nostra gente». I voti non arrivarono a caso. «Io ho fondato la sezione del mio paese, la dodicesima del Bresciano. Oggi dal ’90 la nostra rete si è decuplicata. Poi sono venuti i corsi di formazione politica.

Ci si prepara, studiamo le norme, i problemi. Quando sbagliamo i voti non arrivano». «Ora tutto è cambiato - riflette - ma pensandoci bene i principi sono rimasti gli stessi. Per questo forse siamo diventati il partito più antico del Parlamento».

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