Ma la vera sorpresa è il poeta Viviani primo al Pen Club

da Compiano (Parma)

Strano, ha vinto un poeta. Ieri alle 17,30, a Compiano (Parma), si è svolta la finale della 19ª edizione del premio letterario del P.E.N. Club italiano. A sorpresa, la più votata è stata l’opera di un poeta, Cesare Viviani, classe 1947, senese trasferito a Milano. Con la sua raccolta Credere all’invisibile (Einaudi) si è imposto in larga misura sugli altri finalisti. A lui sono andati 393 voti, contro i 351 assegnati al romanzo di Giorgio Montefoschi Le due ragazze con gli occhi verdi (Rizzoli). A seguire, il romanzo di Elena Loewenthal Conta le stelle, se puoi (Einaudi, 342 voti), il saggio di Stefano Rodotà Perché laico (Laterza, 344 voti) e i racconti di Flavio Soriga L’amore a Londra e in altri luoghi (Bompiani, 310 voti). L’ultimo poeta a vincere questo premio, anzi «antipremio», come vedremo, era stato Andrea Zanzotto nel 2002. Una soddisfazione per la poesia, ancella bistrattata dall’editoria in genere, vista la sua scarsa appetibilità commerciale.
Ma il P.E.N. è, appunto, un antipremio. Il club, riservato a poeti, saggisti e romanzieri, nacque in Inghilterra nel 1921, fu promosso in Italia l’anno dopo da Lauro De Bosis, ripreso dal ’28 da Corrado Govoni e Filippo Tommaso Marinetti e rilanciato, dopo vicissitudini varie, nell’88 soprattutto per volontà di Mario Soldati, Mario Luzi e Lucio Lami. Lami, giornalista, a lungo inviato di guerra, nel ’91 istituì questo «antipremio», così definito per la sua espressa e provocatoria volontà di fare da contrappeso meritocratico alle tante competizioni controllate dall’editoria a fini strettamente commerciali. Qui, gli editori non sono invitati. I circa 300 soci del Club (scrittori, saggisti e poeti pubblicati), indicano nel corso dell’anno i libri che ritengono meritevoli. Una lista dalla quale i soci, con voto scritto e anonimo, traggono la cinquina finale. Si vota infine, sempre in modo anonimo, per posta, attribuendo a ciascun libro un voto in ordine di gradimento da 1 a 5. Ieri, alla presenza di un notaio, nella piazza del paese sono state aperte le buste e conteggiati i voti.
«Separare la cultura dalle degenerazioni del mercato». Questo è il motto, ripetuto da Lucio Lami, oggi presidente onorario (essendo il presidente effettivo Sebastiano Grasso), coadiuvato nell’organizzazione dall’instancabile moglie Francesca. Sarà per questo che il premio è costato, in 19 anni, un sesto di quanto costava il Grinzane Cavour in un anno. Ciononostante, grazie al menefreghismo delle grandi istituzioni, tocca ogni volta ricorrere alla carità dei privati. Quest’anno, all’ultimo, si è ritratta anche la Cassa di Risparmio di Parma, ed è stato solo grazie all’intervento del sindaco di Compiano, Sabina Delnevo, una donna dotata di intelligenza e personalità, che si sono reperiti i (pochi) fondi indispensabili, anche di natura pubblica.
Compiano è quella che con termine abusato ma comodo si definisce «una splendida cornice». È un appartato borgo millenario affacciato sulla valle del Taro (521 metri), dominato da un castello turrito che nella storia passò di mano in mano dai Landi ai Farnese ai Borboni, fino alla marchesa Lina Raimondi Gambarotta, che lo lasciò al Comune nel 1987. Sarà merito dell’età media dei soci, non verdissima, ma a differenza di altri premi questo ha un andamento e un profilo misurati, addirittura compassati, senza snobismi o ostentazioni narcisistiche.

Ieri la cerimonia finale, condotta dalla spigliata giornalista Lucia Bellaspiga, ha confermato che la cultura può muoversi in territori ben lontani da quello dello scontro egolatrico. È, in effetti, un investimento che produce risultati a lungo termine. Ed è bello, una volta tanto, non respirare i fumi velenosi dell’intrigo.

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