Denis Verdini, coordinatore del Pdl, lei è l’uomo del giorno dopo quel «ce ne freghiamo» rivolto al capo dello Stato.
«Una mistificazione clamorosa».
La stessa parola usata da Berlusconi a Ballarò.
«Era un comizio a Prato, presenti mille persone tra cui i ministri Matteoli e Brunetta. Ho fatto un ragionamento di un’oretta e sono stato impiccato a una frase».
Che cosa diceva nel comizio?
«Ho spiegato a lungo, più volte e in modo approfondito le prerogative del capo dello Stato, ho citato la Costituzione, ho ricordato che in passato il Pci battagliò con il Quirinale fino a chiedere l’impeachment di un presidente. Una lunga rievocazione storica».
Anche i partiti hanno la prerogativa di esprimere le proprie ipotesi: è questo che intende?
«A quel punto ho detto: politicamente i partiti se ne fregano delle prerogative altrui perché hanno le loro».
Ed è scoppiato il finimondo.
«Da un pacato discorso di un’ora è stata estrapolata una frase fuori contesto su cui si è scatenata un’iradiddio».
È sembrato un attacco al Quirinale che ribadiva le «competenze esclusive del presidente della Repubblica».
«Per nulla. Io ho pronunciato quella frase verso le 19, ignoravo che dopo un’ora e mezzo il Colle avrebbe diffuso quella nota. C’è stata la strumentalizzazione di una battuta fuori contesto e un montaggio sbagliato dei fatti come se volessi replicare a Napolitano. Ma quando mai».
Le agenzie di stampa hanno riportato le sue parole dopo quelle di Napolitano anche se lei le aveva dette prima.
«Secondo me, il presidente voleva zittire Fini che nel pomeriggio l’aveva tirato per la giacca».
Dicendo che «il governo non avrà la fiducia ma non si andrà a votare perché il capo dello Stato sa che cosa fare»?
«Appunto. Fini prefigurava un ribaltone e sembrava parlasse in nome di Napolitano. Il quale invece ha voluto sottolineare la propria autonomia».
In sintesi: i partiti hanno il diritto di esporre ipotesi di soluzione di una eventuale crisi, e il Quirinale il diritto di esercitare le sue prerogative.
«Ci mancherebbe altro, chi gliele può togliere? Sono scritte nella Costituzione».
Non si è pentito di quel «ce ne freghiamo» di stampo mussoliniano?
«E perché? In questo periodo si sente ipotizzare un nuovo governo che mandi all’opposizione Berlusconi e Bossi, ed è prerogativa del nostro partito dire con forza che non è giusto».
E se Napolitano, in caso di crisi, esplorasse davvero la possibilità di un esecutivo senza Pdl e Lega?
«È diritto del presidente verificare se esiste una maggioranza alternativa. Ma a questo punto il problema è politico: mandare all’opposizione i partiti che hanno vinto le elezioni sarebbe gravissimo, un caso senza precedenti nella storia repubblicana».
Non si è nemmeno mai visto un presidente della Camera raccogliere firme per sfiduciare il governo.
«Quello è il massimo della non-istituzionalità, altro che il mio “ce ne freghiamo”».
Anche lei, come Berlusconi, è fiducioso nel voto del 14 dicembre?
«In un momento così delicato per i riflessi della crisi economica internazionale occorre stabilità e quindi un governo, non le elezioni. Per questo il presidente del consiglio si appella alla responsabilità dei parlamentari».
Il governo avrà una maggioranza di pochi voti: potrà proseguire a lungo?
«La fiducia, anche risicata, sarà un segnale importante di stabilità che potrà indurre altri al senso di responsabilità individuale per completare la legislatura, che è quanto serve al Paese. E poi, qual è l’alternativa? Un governo da Vendola a Fini passando per Di Pietro, Bersani e i centristi?».
Prevede un ampliamento della maggioranza dopo la fiducia?
«Crediamo che molti parlamentari rifletteranno bene prima di venire meno al mandato ricevuto dai loro elettori».
Se il governo sarà sfiduciato, il Pdl chiederà al Quirinale le elezioni?
«Certo. Poi spetterà al Colle decidere di sciogliere le Camere».
Quindi niente alternative a Berlusconi? Nessuna ipotesi di governo Letta o Tremonti?
«Ma no, questi sono gli auspici delle opposizioni. Sulle schede del 2008 c’era un simbolo con il nome di Berlusconi: un governo senza di lui sarebbe un ritorno indietro della democrazia bipolare».
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