Verdone: "I concerti benefici non sono mai serviti a niente"

L’attore e regista critica Bono e Geldof: "Ormai più che rockstar sono predicatori. Erano più sinceri Santana e Havens a Woodstock"

Verdone: "I concerti benefici non sono mai serviti a niente"

«I concerti benefici di Bono e Bob Geldof? Mi sembrano iniziative promozionali. Non sono mai serviti a un cavolo. Se la causa merita è giusto organizzare un concerto e raccogliere dei soldi, ma questi due ormai più che rockstar sono predicatori, o peggio politici». Carlo Verdone, uno che di musica se ne intende, dice la sua sul mondo del rock nel libro Rock around the screen. Storie di cinema e musica pop (di Diego Del Pozzo e Vincenzo Esposito, edizioni Liguori) in uscita oggi. Da vecchio appassionato è in grado di fare confronti - sarà l’età, ma noi siamo dalla sua - che non faranno piacere ai fan di Geldof e degli U2. «Era più sincero il messaggio a Woodstock di Richie Havens con la sua tunica e la sua chitarra e di Carlos Santana. Questi arrivano, fanno un discorso e ripartono sul loro jet privato. È facile così stare dalla parte di chi soffre».

Non fa sconti Verdone, da duro che ha masticato il vero rock. Il suo chiodo fisso è Jimi Hendrix (in Maledetto il giorno che ti ho incontrato il suo personaggio parte per scoprire la verità sulla morte di Jimi). «Era talmente avanti che quando uscì Are you experienced? non lo capimmo. Solo anni dopo metabolizzammo che era uno dei brani più coraggiosi della storia». La fine degli anni Sessanta e i primi Settanta (dai Led Zeppelin all’eclettico Scott Walker) sono i suoi anni d’oro, sul resto picchia duro. «Mi farò tanti nemici ma per me i Clash erano musicisti modestissimi, mettevano insieme a malapena due accordi. Piacevano nel periodo del punk perché avevano quell’aura anarchica, quella mistica politica peraltro piuttosto debole». E anche ai Queen non le manda a dire: «Erano trash, stucchevoli, zuccherosi, anche se brani come Innuendo hanno avuto un significato importante per gli anni Ottanta».

Così c’è da scommettere che si farà odiare dalle giovani generazioni. «No, questi sono i miei gusti; ho il massimo rispetto per i giovani. Io sono stato fortunato perché sono cresciuto con il meglio del rock, ma ognuno ama i suoni e gli ideali che ha vissuto. Io a Natale ho ricevuto una lettera di auguri da Pete Townshend dei Who che mi ha mandato anche una copia del suo disco Scoop. I ragazzi che amano il punk o i Queen sono molto competenti e preparati, ma hanno una visione della vita diversa dalla mia».

Anche sul cosiddetto rock italiano Verdone ha molto da ridire. «Il rock non è nato in Italia, da noi è nata la musica melodica di Claudio Villa, Nilla Pizzi, Gino Latilla, Gigliola Cinquetti, i Ricchi e Poveri. La nostra musica non sarà mai rivoluzionaria, possono esserlo i testi; quelli anarchici di Vasco, quelli poetici di Lucio Dalla. Io non ho una grande cultura sui cantanti italiani. Oltre a Vasco e Dalla amo Mina e Battisti, due giganti, e Venditti che ha scritto anche per me. Non seguo molto; tra i rocker non mi dispiace Ligabue, che a volte sembra Guccini con la chitarra elettrica. Comunque, ascolto molte cose e ci sono cose nuove di un certo valore: i Negramaro hanno un linguaggio interessante».

Immaginiamo come attenda con ansia il Festival di Sanremo. «Cosa vuole - ridacchia - non mi interessa, non mi ci ritrovo. Forse il problema della musica italiana è che ha sempre un occhio e un piede rivolto a Sanremo».

E allora è inevitabile passare al cinema e scoprire il film rock preferito da Verdone.

Manco a dirlo cita Woodstock («cartina geografica dell’epoca»), Last waltz di Scorsese (concerto d’addio di The Band con tanti ospiti), Magical Mystery Tour dei Beatles e tra quelli recenti Shine a light, perché insegna che «il rock non impedisce l’invecchiamento fisico, ma ti fa rimanere un ragazzo nell’anima».

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