La verità su D’Annunzio leggendo la sua scrittura

«Sono nata in via Boccaccio. Adoro Milano. Forse sono una zanzara che ama il ddt ma mi ossigeno solo nella mia città». Alla dolce età di sessantacinque anni, non visibili, ha nuotato con i delfini selvatici Gabriella Salini, autrice del volume «La scrittura del poeta. Un’indedita rivisitazione grafologica di Gabriele D’Annunzio» (AB editore).
Ma cosa c’entrano l’acqua e i delfini con la grafologia, l’arte che penetra nell’intimità attraverso la calligrafia? Fluidità, scorrevolezza, imprevidibilità del segnare è scrivere, sorgente che porta a galla l’essere profondo in «a,b,c» oggi assassinate dalle tastiere. «Sono stata chiamata da una società di software per elaborare un programma che consenta di scrivere con la propria calligrafia attraverso la tastiera. Non credo in questa evoluzione. Vorrei lanciare un sos. Le persone devono ritornare alla penna. Scrivere a mano aumenta l’intelligenza e permette di esternare gli stati d’animo. Mi auguro che sorgano palestre antistress in cui ritrovare la forma attraverso la calligrafia».
Nata da Maria Secco, che teneva la rubrica «Il gioco del segno» su Alba, Gabriella Salini è cresciuta a latte e grafologia. «Purtroppo questo tipo di competenza è riconosciuta solo in ambito forense, non è tenuta in considerazione come indagine psicologica. Siamo fermi a banali stereotipi: dimmi come scrivi e ti dirò chi sei». Conoscere i dettami tecnici della grafologia, ad esempio: una calligrafia inclinata verso destra svela un’indole passionale, non basta per addentrarsi nel sè. «Non avevo simpatia per D’Annuzio. I miei studi su di lui iniziarono sulle carte del Vittoriale. Dopo tre anni ho strappato tutto. Poi è arrivata Claudia Buccellati che mi ha aperto il caveaux di via Montenapoleone. I carteggi tra Gabriele e Mario». Il Vate e il gioielliere erano uomini diversi, ma un segno li accumunava: il gioiello non come oggetto di lusso ma opera della creazione. Dopo aver radiografato il poeta nei quaderni d’adolescente, Gabriella Salini lo incontra nelle lettere a Buccellati. Toglie l’ultima maschera all’uomo che fin da bambino nel far piovere lettere mostra il suo genio, l’amore per la musica, la sua vera arte, l’attualità del suo pensiero, la tendenza al suicidio. «Sono convinta che sia morto suicida» conferma. La grafologia entra nel corpo tracciato sul foglio, perché la scrittura è corpo.
«La Duse e D’Annunzio bambini avevano un volteggio nello scrivere che li accomunava. Era fatale il loro incontro. Ci sono calligrafie simili in personaggi lontani: Sant’Agostino, Freud, Madre Teresa hanno in comune l’incapacità di distinguere il bene dal male. C’è una certa delinquenza nella loro penna».

Non sono una letterata né una storica, dice di se stessa, ma nella firma di una persona coglie riflessi superiori a quelli che l’anima segna nell’occhio. Un monito. «Non costringete i bimbi alla bella calligrafia. Più la traccia dell’alfabeto è particolare e sconnessa, più l’intelligenza esce».

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