Ancora soldati. LItalia usciva dalla peggiore guerra della sua storia e i suoi artisti dipingevano ancora soldati. LItalia usciva dalla guerra sbeffeggiata e contrita, eppure gli artisti lavoravano tutti. Due soldati e un cavallo di Mario Sironi è un lavoro del 1945, una tela confusa di segni e di storie dove il volto contratto e arancione del soldato che parla, e chissà se parla della sconfitta imminente o dellimpossibile vittoria, diventa, tra lunghe distese di biacca, un eroe muto, che potrebbe dire tante cose. Il Prigione di Mirko e il Fucilato di Pericle Fazzini potrebbero raccontarne altre: siamo negli stessi anni e nello stesso dolorosissimo daprès di un dopoguerra senza precedenti.
In un paese disfatto e povero, senza apparenti attese, nel campo dellarte tutti sono pronti, «desti». La mostra appena aperta a Ravenna, dal titolo LItalia sè desta: 1945 -1953 Arte in Italia del secondo dopoguerra (Museo dArte della città di Ravenna, a cura di C. Spadoni, catalogo Allemandi, fino al 26 giugno 2011) delinea un panorama tanto contradditorio quanto vasto.
Nellappena passato regime tutti avevano la possibilità di dipingere ed esporre. Basterebbe lesempio di Renato Guttuso, già presente e premiato allufficialissimo Premio Bergamo, o ad Ennio Morlotti, futuro interprete di una variante soltanto italiana e padana dellInformale europeo. Quel che questa mostra rivela è come lItalia uscisse dalla guerra artisticamente integra e pronta al confronto con lEuropa e il mondo, forte di un passato immenso e indiscutibile.
I critici e gli ideologi cercarono di distinguere realisti e astrattisti. Arte fascista, arte comunista. In Italia nessuno era riuscito a imporre lidea dell«arte di Stato». Non il quattrocentesco ritorno allordine, non il disordinato succedersi di futuristi, che, tra antiche velleità nazionaliste e tarde passioni aeropittoriche, avevano scompaginato qualsiasi idea di un arte regolata da reali direttive. La sorpresa che deriva da questa adunata di solitari e di gruppi, di ex-fascisti e oppositori, di movimenti che si succedono uno dopo laltro, è proprio lo spalancarsi di tutte le possibilità.
A pochi mesi di distanza luno dallaltro Alberto Burri e Lucio Fontana avevano fatto ritorno in Italia. Il primo dal campo di prigionia per «non collaborazionisti» di Hereford, Texas, il secondo da Buenos Aires, dove lavorava la ceramica. Nessuno dei due sapeva che cosa avrebbe trovato, eppure proprio a loro toccò in sorte di cambiare il volto dellarte italiana, rovesciando per sempre il concetto stesso di materia, colore, di opera darte. Uno aveva creduto nellItalia fascista e nella Repubblica Sociale, laltro, già volontario nella Prima e medaglia dargento nel 1918, nellItalia unita.
A Corrado Cagli, ebreo e perseguitato, i comunisti contestavano i vecchi soggetti fascisti, come Cesare e Augusto, oppure Squadristi allassalto. Paradossalmente ne nacque una polemica poco simpatica, che oppose lex fascista Cagli ai nuovi comunisti di Forma 1, polemica che inaugurò lannosa questione se larte astratta fosse fascista o comunista. Palmiro Togliatti ci mise del suo, come è noto, e, col nome di Roderigo di Castiglia battezzò «scarabocchi» le opere dei pittori astratti.
Per fortuna gli artisti continuavano a lavorare e a produrre, chi epurato, chi blandito dai poteri nuovi. A parte Filippo De Pisis. Artista laureato in lettere, botanico per diletto, senza fascismi e senza comunismi, senza informale, cubismi, senza Guernica, senza patenti né protettori. Presente alla mostra con due capolavori assoluti degli ultimi anni, De Pisis spegne la luce su tutto quel che è stato. Su di sé e sul mondo, con la nobiltà che ha nel sangue e la disillusione che ha avuto nella vita. Le ultime nature morte sono addirittura firmate V.F., Villa Fiorita, la casa di cura. Sono appena tracciate sul cartone, a piccoli tocchi di biacca.
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