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Al vertice Fao anche Ahmadinejad, Mugabe e gli altri

Imbarazzo per la presenza a Roma dei due discussi leader: Berlusconi e Ban Ki-Moon li escludono dalla cena di gala. Al centro del vertice la fame nel mondo: per la Fao la colpa è dei cambiamenti climatici

Al vertice Fao 
anche Ahmadinejad, 
Mugabe e gli altri

Roma - Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon e Silvio Berlusconi hanno pronta la scusa per non invitarli a cena. Le delegazioni studiano i percorsi più adatti per evitare di incontrarli. Dimostranti e difensori dei diritti umani sono pronti a contestarli. Ma il presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad e quello dello Zimbabwe Robert Mugabe non desistono. Sono i professionisti dell’imbarazzo, i purosangue dell’impresentabilità, i principi dei guastafeste. E durante i tre giorni di vertice romano della Fao dedicato al rischio di carestia globale faranno di tutto per essere all’altezza della propria fama.
Robert Mugabe, prototipo del dittatore africano capace di dilapidare le ricchezze del proprio popolo e di ridurlo alla fame è a Roma da domenica, si sollazza al Grand Hotel di via Veneto e si prepara al ruolo di affamatore tra i mecenati.

Mahmoud Ahmadinejad si fa, invece, precedere dall’eco delle consuete minacce ad Israele. Mentre l’aereo per Ciampino lo attende sulla pista fa un salto alle celebrazioni per il 19° anniversario della morte dell’Imam Khomeini e sfodera il consueto repertorio di minacce e pronostici anti israeliani. «Il regime criminale e sionista con una storia di 60 anni di saccheggi, aggressioni e crimini, è ormai alla fine e sarà presto eliminato dalle carte geografiche» profetizza il Presidente dando per imminente anche la «caduta e l’annientamento della potenza satanica degli Usa». Sono le solite frasi, ripetute fino alla noia dall’autunno 2005 subito dopo la sua elezione, ma in quella reiterazione è inscritta la sua visione del mondo. Per l’ex ufficiale dei pasdaran e per i vecchi camerati che gli garantiscono l’appoggio dell’apparato militar-religioso-industriale dei Guardiani della Rivoluzione l’Iran conquisterà le masse islamiche proponendosi come unico vero nemico d’Israele e Stati Uniti. Sul fronte interno Ahamdinejad ha lasciato mano libera ai duri del regime moltiplicando le condanne a morte, perseguitando gli oppositori, reintroducendo quei controlli sui comportamenti femminili tipici degli anni più bui del khomeinismo. Non pago, ha preteso di controllare l’economia sperperando gli introiti garantiti dalle entrate petrolifere e innescando una spirale inflazionistica che solleva accese critiche anche tra i conservatori. In solo tre anni ha, insomma, bruciato le tappe dell’impopolarità globale.

Pur di non averlo tra i piedi alla cena di stasera a Palazzo Madama Ban Ki-Moon e Silvio Berlusconi si sono inventati «una lista di invitati decisa dall’Onu alla luce di considerazioni inerenti unicamente la crisi alimentare». Al visionario Ahmadinejad poco importa. Lui si ciba d’imbarazzo ed estromissioni. Più l’Occidente l’ostracizza, più si rafforza la sua fama di nemico degli Usa e d’Israele. Se Roma non lo vuole la sua missione è già compiuta e lui può tornarsene appagato nella sua Teheran. Forse già stasera.

Per il dittatore Mugabe - grande manipolatore delle presidenziali del 2002 e mandante dell’eliminazione di decine di oppositori - la situazione è più complessa. Il 27 giugno prossimo affronterà il ballottaggio con Morgan Tsvangirai, vincitore del primo turno delle presidenziali. Una sconfitta può portare l’84enne dittatore davanti a una corte internazionale. Essere a Roma, infrangere grazie ai privilegi Onu le barriere dell’embargo che gli impedisce l’accesso in Europa significa l’illusione di recuperare un minimo di visibilità e autorità internazionale. A farlo ricredere contribuiscono le proteste delle delegazioni anglosassoni. Per i portavoce del premier britannico Gordon Brown la sua partecipazione «è assolutamente deplorevole, visto il suo contributo alle difficoltà legate alla situazione alimentare in Zimbabwe».

Il ministro dello Sviluppo britannico Douglas Alexander e quello degli Esteri australiano Stephen Smith, entrambi presenti a Roma, se la cavano, invece, con due sole parole: «Presenza oscena».

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