Per certi versi è una vicenda del piffero. Perché di rilevanza trascurabile rispetto ai mille problemi che ci attanagliano di questi tempi. E poi perché racconta proprio di un piffero. Mi piace chiamarlo così. L'ho sempre chiamato così: piffero anziché flauto. Ho iniziato nel pieno di una fase di ribellione pre adolescenziale in cui mi avevano costretto a preferirlo alla chitarra. Per inciso, ricordo ancora nome e cognome del prof. delle medie che ci aveva imposto il piffero come meraviglioso accesso all'armonico mondo della musica. Sarà... Non capivo. Mi avessero detto che il chiavistello per aprirmi al do-re-mi era la chitarra o il mitico organo Bontempi bianco e arancione, forse avrei compreso. Invece il prof. aveva spiegato che il flauto, cioè il piffero, in classe, fra i banchi, era un modo assolutamente democratico per consentire a famiglie di tutte le tasche di offrire ai propri figli-alunni l'opportunitá di conoscere la musica. Ma io non avevo capito. Io volevo la chitarra.
Compresi solo poi che la chitarra costava parecchi pifferi e che quell'approccio economico allo studio era sacrosanto. Credo rispecchiasse più o meno quello attuale. Con una differenza grande, però. Che ora tutto passa e molto poco rimane. Perché le mode e l'accelerato invecchiare e il non essere più all'altezza che caratterizza gli oggetti elettronici che sempre più ci fagocitano, sta condizionando noi e il modo in cui valutiamo gli altri oggetti. Fossero pure di legno. Ci stancano prima, ci annoiano prima e prima s'ammantano di un senso di minore utilità e qualità. Per cui via, sono presto da buttare.
Come il piffero, appunto. Quello che mia moglie quando nostra figlia le ha detto «mi serve un flauto a scuola» è corsa a cercare nella scatola delle cose belle in soffitta. Quello con l'anima in legno che da ragazza aveva conservato con cura per i suoi figli.
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