Con una petulanza un po’ da sfaccendato, Paolo Mieli torna a dire che il Cav non ha comprato la villa di Lampedusa. L’ex direttorone del Corsera si è nuovamente presentato ieri in tv, Agorà su Rai Tre, per ripetere che a due settimane dall’annunciato acquisto ci sono solo caparra e compromesso. Lo scopo di Mieli è riaffermare che il Berlusca gli sta sulle scatole e lo piglia per i fondelli:«Ha detto “l’ho comprata”. Come dice spesso, “l’ho fatto”oppure “Lampedusa è tra le cose fatte” che poi uno va vedere e la cosa non è come Berlusconi l’ha presentata». È la terza volta che Mieli ci batte, considerandola la sua intuizione forte di questo scorcio di primavera. La prima sortita è stata a Ballarò il 5 aprile, dando manleva a Fini che in un video criticava la visita all’isola del Cav in quelle ore. Paolo, in studio, salta su trionfante e dice: «Conosco il proprietario di quella villa e so per certo che non è stata acquistata da Berlusconi. È una bugia».
Gongolano gli antipatizzanti del Cav e afferra il microfono Walter Veltroni che chiede al Premier di dimettersi. I toni sono drammatici da quacchero dolente: «Se non è vero quello che il premier ha detto di fronte a tante persone che soffrono, dovrebbe fare quello che si fa in un Paese civile: un passo indietro». Mieli si gonfia e la sua calvizie sprizza bagliori di aureola. Due giorni dopo il Foglio pubblica i documenti della compravendita e sbugiarda il direttorone. Ma lui ignora. Va ad Annozero e insite. Ieri replica. Riguardiamo la scena. Emerge l’antipatia di Mieli per il Cav e, specularmente, la sua consonanza con i politici che detestano il Cav. Si è visto come in tv Paolo sia andato in soccorso di Fini e Veltroni abbia fatto da spalla a Paolo. Ma la lista dei pupilli di Mieli è più vasta perché il giornalista- richiamandosi ad antiche figure della professione, Albertini, Missiroli, Scalfari, altri - è ossessionato dall’ambizione di guidare i governanti in veste di maitre à penser.
A questa debolezza umana va anche ricondotta la tensione col premier che, in fondo, è frutto di delusione. Il Cav, infatti, aborre l’idea di farsi menare il naso da una mosca cocchiera, tanto meno da un ex sessantottino qual è Paolone. Quando il Cav scese in politica nel 1994, Mieli dirigeva il Corsera già da un anno e mezzo. Rimase per un po’ guardingo in attesa che l’astro nascente gli desse retta. Insoddisfatto, gli presentò il conto. Mentre il Cav presiedeva a Napoli un vertice mondiale, pubblicò sul suo quotidiano l’avviso di garanzia del pool di Milano che incriminava il Capo del governo. Era guerra: Mieli aveva schierato contro il premier il quotidiano, fin lì, più governativo d’Italia. Il Corriere non fa uno scoop per farlo, come faremmo noi del Giornale , più incoscienti. Sui pro e contro ci fa notte. In questo, Paolone è un callido volpone.
In un’altra occasione, quando un suo cronista giudiziario, Carlo Vulpio, rivelò in una corrispondenza nomi delicati - Nicola Mancino vice del Csm, Mario Delli Priscoli, procuratore generale della Cassazione, altri - lo sollevò dell’inchiesta con una secca telefonata, portandolo al licenziamento. Dopo Napoli, tra Cav e Mieli calò la saracinesca. Lasciato il Corriere nel 1997, Paolone- che non si sentiva valorizzato - si dette una spolveratura asettica, al punto che nel 2003 (legislatura berlusconiana) fu designato come «presidente di garanzia» alla Rai. Ma era una sceneggiata e l’aspirante capì che in realtà non lo voleva nessuno. Si legò al dito la disavventura e, tornato per la seconda volta alla guida del Corriere (mai accaduto prima) lo schierò deciso contro il Cav. Un mese prima dell’elezione dell'aprile 2006, stampò un’editoriale di benservito a lui e una sviolinata rivolta Romano Prodi. Scrisse: in cinque anni Berlusconi ha «badato alle sue sorti personali» e ha deluso; «siamo invece convinti che la coalizione di Prodi abbia i titoli per governare al meglio per prossimi cinque anni».
E giù una serie di osservazioni incantate sugli alleati del Prof: Rutelli che «ha creato un moderno partito liberaldemocratico », Fassino «il grande traghettatore», il radicale Pannella e il socialista Boselli con «il loro mix di laicismo moderato e istanze liberali », Bertinotti che ha fatto «approdare i suoi sulle sponde della non violenza» e via con i solfeggi. Senza dimenticare qualche benevolo passaggio rivolto a Fini e Casini, i «saggi» del centrodestra. Mieli, occhio di lince, intuiva che intrigavano e li allettava. Questa carrellata di consigli, carezze e ammonimenti è la vera natura di Paolone che, per badialità dei gesti e voce salmodiante, è il Budda del nostro secolo. Sappiamo bene come siano finiti suggerimenti e previsioni. Prodi dopo due anni gettò la spugna inseguito dalle toghe. Rutelli va in pedalò. Fassino è tornato a Torino. Pannella si è fatto crescere le trecce, Boselli ha perso i capelli, per vedere Bertinotti bisogna andare a un cocktail.
Gli restavano Fini e Casini, rimasti in sella grazie al Cav. Finché ha avuto il Corsera (2009), li ha coccolati con pifferi e fanfare. A Pierferdy ha lasciato in dote un gioiellino tra il 5 e il 7 per cento. All’amico e editorialista Galli Della Loggia, ha raccomandato Gianfry. Galli, pasqualmente felice per la sprovvedutezza culturale dell’allievo,gli ha indicato con articoli di fondo le nuove praterie in cui pascolare: la Destra storica, il laicismo cavourriano, quello ospedaliero delle clonazioni, dei bimbi in provetta, delle fecondazioni eterologhe. E lì, Gianfry ha brucato fino a ridursi alla controfigura di Bocchino. Oggi, questo amabile burattinaio, autore di storia e buon conversatore tv, ha 62 anni. È figlio d’arte. Renato, il babbo, è tra i fondatori dell’Ansa nel dopoguerra, diresse l’Unità, fu segretario di Togliatti. Poi, aprì gli occhi, lasciò il Pci e scrisse un libro meraviglioso sulle malefatte del Migliore nella guerra di Spagna, Togliatti 1937 . Nei suoi ultimi anni, collaborò col Giornale e Montanelli. L’arcobaleno di Paolone è simile. Quando entra all’ Espresso di Eugenio Scalfari a 18 anni, è un puttino biondo e ceruleo. Poi diventa un ceffo di Potere Operaio. Ma sta solo seguendo la moda, ben altri i suoi destini.
Dall’aio Eugenio succhia il gusto del potere. A 40 anni accalappia Agnelli che lo fa direttore della Stampa , due anni dopo è al Corriere , stesso milieu. Ha due figli dal primo matrimonio, una dal secondo con Barbara Parodi Delfino. A presentargli la bella, fu Luca di Montezemolo che aveva avuto una figlia da lei. Barbara era tiepida.
«Mi sembra di una noia mortale», diceva. Dopo la convivenza, oggi finita da tempo, precisò il giudizio: «Paolo ha la testa veloce e il corpo lento. Odia lo sport». Perciò non si darà all’ippica e imperverserà in tv.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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