«Vi racconto il dramma di essere Platinette»

Immagina un futuro in giacca e cravatta, da docente universitario o da politico: «Mi occuperei di problemi veri»

«Alla fine, io sono uno che viaggia fra il nulla e il niente, una terra arida che non dà frutti. Fossi rimasto un bel ragazzo - lei non mi crederà, ma sono stato un bel ragazzo - e non mi fossi complicato la vita, sarei divenuto un uomo tradizionale, che è poi quello che invidio nei maschi, l’elemento distruttivo del mio rapporto con loro... L’invidia, sì: ne invidio la prestanza fisica, il fatto di avere la faccia come il culo, la sfacciataggine, per usare un linguaggio pulito, la durezza... Perché poi io sono uno senza carattere, questa è la verità, una via di mezzo tipica di una mezza virilità... Non è un’invidia di natura sessuale, dovuta a un desiderio sessuale, no, più semplicemente è l’invidia per quello che non ho, la normalità. Anche l’eccesso, guardi, il non adattarmi, il passare da una sfrenatezza all’altra... Eccedo perché il grigiore, le regole, l’ordinarietà, è tutto quello che non ho mai provato, che non so cosa significhi e da cui rifuggo, ma che tuttavia mi affascina, mi piacerebbe. Forse è anche per questo che mi trovo più a mio agio con le donne, perché hanno quella forma compassionevole di vedere se stesse e il mondo che invece per la spietatezza virile è un tabù... Del resto, le donne sono più abituate a una deformità maschile, il brutto è stato anche una categoria estetica, il culto del corpo maschile agli occhi del sesso femminile è roba moderna, prima non c’era. E poi, mi piace quel loro venirti incontro, quel “non ridurti così” che ogni tanto ti sussurrano, quel farti sentire un calore, una presenza, tutte cose che potrebbero anche funzionare se nel tempo non avessi eretto tanti di quei muri che nessuna salvezza ormai è più possibile. Io ho messo su questa sarabanda, questo baraccone, perché non potrei fare altro, ma anche perché è un limite alla leggerezza che so di avere, ma che lasciata da sola affonderebbe... Solo nuotando riesco a stare in pace con me stesso, mi spoglio del mio corpo, mi muovo meravigliosamente, rimango a galla. Lo faccio la mattina presto, in piscina, quando non c’è nessuno, quando non mi vede nessuno. Non sono un bello spettacolo».
Maurizio Coruzzi, in arte Platinette, è questo gigantesco clown triste che mi sta davanti, il corpo sprofondato su un sofà, le braccia che circondano la spalliera di una sedia e sorreggono un volto truccato che ti guarda. Domani andrà in scena allo Smeraldo di Milano con uno spettacolo, Tutto su di me, una sorta di amarcord fra pubblico e privato in cui canta, ironizza, racconta. La prova generale l’ha fatta a Bologna, con grande successo e molta commozione e divertimento di pubblico mi dice il suo agente, ma lui spazza via con un gesto della mano ogni critica positiva. «Sì, non è andata male, anzi è andata bene. Eppure, non lo so, sarà che ho compiuto cinquant’anni, sarà che invecchio, ma mi trovo noioso, una palla... Non dovrei parlare così, è contro i miei interessi, lo so, ma cosa vuole che le dica... Certo, il pubblico è stato carinissimo, affettuosissimo, sono venuti in tanti in camerino, tutte donne, nemmeno un maschio interessante... Vede, si ritorna al discorso di prima... Comunque, dopo Milano andrò a Torino e poi a Genova, in estate mi aspettano un po’ di serate, night, discoteche, dancing... Poi a settembre tolgo il disturbo».
Sembrerà paradossale, ma questo clown triste che non si piace ha come unica nostalgia se stesso. «Io ho fatto televisione perché la televisione è la mia memoria personale, la mia babysitter. Posso ricordarmi il mese, il giorno, l’anno in cui nacque il secondo canale tv perché l’ho vissuto come una festa, un mio compleanno, ho passato più tempo con la Nicoletta Orsomando, con la Gambineri, la prima valletta depressa della storia, che non con mia madre... La televisione è stata l’altra metà di me, il mio parco-giochi, il parco-giochi di un bambino che non ha mai giocato, né con i soldatini né con le bambole, che non ha mai dato un calcio a un pallone».
Una nostalgia venata di amarezza, carica di rimpianti, ma anche di rimorsi. «In fondo non ho mai perdonato ai miei di essere ciò che erano, ex contadini, operai inurbati. Non è che fossimo poveri, la povertà vera, quella da assistenza pubblica... Ma io ho sofferto del non essere un vero borghese, avrei voluto nascere in una famiglia borghese, tipo quelle di molti compagni di scuola di cui frequentavo le case, vedevo i genitori, ne intuivo le solidità... Ecco, le mie successive scelte di vita non sono state altro che un grido d’aiuto: invidiavo quei compagni, avrei voluto essere come loro, avere le loro stesse sicurezze... Fossi nato così sarei stato meno deviante: la borghesia non è un vizio, è un pregio... Ed è la sicurezza borghese che comunque ti permette di coltivare la tua diversità, costruisce intorno a te la strategia del silenzio come pratica rassicurante: non hai nessun bisogno di sbandierare quello che sei o che senti. Tutte le sere mio padre scriveva su un quadernetto come quello su cui lei sta prendendo appunti, i conti, un rituale, pover’uomo, che per me era un incubo, un rituale con cui mi sono rappacificato solo quando lui si è fatto vecchio, la vecchiaia l’ha fatto fragile, io me ne sono preso cura e quindi, alla fine, mi sono rappacificato anche con lui...Ma, da bambino, avrei voluto essere figlio di Malagodi, non di mio padre, capisce cosa intendo?».
Nell’autobiografia che fa un po’ da canovaccio allo spettacolo e dalla quale quest’ultimo prende anche il nome, la vita sentimentale di Maurizio-Platinette assomiglia a un catalogo sadomasochistico: il sesso con gli uomini per provare la loro inferiorità rispetto alle donne, perché possono essere umiliati più facilmente, perché senza un filo di disprezzo non c’è attrazione, perché si è comunque indesiderabili, e quindi... «Ma lei mi ha visto bene? Se qualcuno mi dovesse trovare attraente sarebbe un caso patologico, via... E d’altra parte l’insistere sulla mia incapacità seduttiva è anche l’unico modo per vedere se qualcuno rimane e con quel qualcuno verificare se poi un rapporto può stare in piedi... Quanto al sadomasochismo, bisogna intendersi. Stabilito che l’arte dell’incontro è difficilissima, non è come sfogliare un catalogo postalmarket dei rapporti interpersonali, stabilito che proprio per aver sopportato troppe storie che non sono mai decollate, uno poi prova magari piacere a mandare la gente in traumatologia mentale per qualche mese, stabilito che solo con uno stato di tensione io posso pensare a una storia, tutto il resto, il piacere di umiliare, di ferire, è più illusione che realtà. È più facile che prepari dei minestroni che non delle vendette».
Alla fine dello spettacolo Platinette si toglie la parrucca e rimane la testa calva di Maurizio, il travestimento non come fonte di femminilità, ma come possibilità ulteriore di esistere. Cos’è allora che trova più interessante in una donna rispetto al proprio sesso, e perché questo interesse non è anche di natura sessuale? «Lo è stato, e ha contrassegnato una parte della mia adolescenza, ho avuto anch’io le mie “fidanzate”, e del resto credo che il pubblico capisca che io non sono il travestito che fa la donna, non c’entro niente... Ma, eccezion fatta per casi rarissimi, l’uomo è noioso, è greve e grave, laddove la donna ha quella sublime capacità di palleggiare il leggero, di mischiare l’alto e il basso, di appassionarsi e di attardarsi su particolari inconsistenti, futili... Ha presente le sofisticated comedies degli anni ’40, quelle in bianco e nero con i dialoghi scintillanti?... Ecco , le donne io le vedo così, apparentemente sbadate, che perdono il filo, che se ne fregano se perdono il filo, che cambiano opinione, che se ne fregano delle opinioni, che sono vive, santoiddio... Naturalmente non sto parlando delle femministe di una volta, delle eterne Melandri di un secolo fa, borghesi che odiano la ricchezza che hanno acquisito e debbono essere problematiche anche se non hanno problemi. Sto parlando delle donne troppo stupide per non essere anche intelligenti, troppo intelligenti per non essere anche stupide».
Nel futuro di Maurizio Coruzzi Platinette ci sarà sempre di meno. «Sono stufo delle luci, della città, del varietà... Ho voglia di biciclette, di tortelli di erbe, delle piazze di Parma, della provincia, di garanzie. Mi piacerebbe fare politica, ma non la politica come provocazione, non Cicciolina o Cicciolona, ma la politica nelle istituzioni, i problemi degli anziani, della salute, quei problemi di cui ti rendi conto solo quando ti toccano, quei problemi che non c’entrano nulla con le ideologie, la destra, la sinistra... Mi piacerebbe insegnare all’università, Storia della televisione, per esempio, in giacca e cravatta, con la mia brava borsa da professore... E poi continuare a scrivere, naturalmente. Vorrei rimettere mano a un romanzo che avevo iniziato, Bianca si intitolava, il nome di mia madre, il racconto in prima persona della sua vita di ragazza durante la guerra. L’ho riletto, un disastro, un po ’come fare recitare Shakespeare alla Caprioglio.... Credo che sia anche tempo per me di farla finita con questa identificazione materna in stile Vestito per uccidere...».


Magari è anche tempo di mettere un po’d’ordine in un disordine sessual-sentimentale, mi viene da dire, un po’ saccente e un po’ moralista, al momento di chiudere l’intervista. Platinette sposta la mano della truccatrice e mi guarda, gli occhi bistrati, le ciglia finte, le labbre lucide di rossetto: «Tesoro, non è come decidere la località di vacanza...». Come non detto.

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