Vi racconto l’odissea di noi risparmiatori

Salve, sono un piccolo risparmiatore italiano. Il mio nome non importa, sono uno dei tanti. Sono un impiegato, un operaio, un insegnante, un carabiniere, un taxista. Uno di quegli individui che durante la propria vita di lavoro riescono a mettere da parte cinquanta, sessanta, centomila euro per una vecchiaia migliore, o per sposare un figlio, o per realizzare finalmente quel viaggio di nozze troppe volte rinviato.
In mezzo alla bufera che sta investendo il grande mattatoio finanziario, vorrei semplicemente raccontare la mia piccola storia. Così, anche solo per alzare il ditino e ricordare che esisto ancora, con le mie tensioni e le mie paure, le mie ansie e le mie preoccupazioni. Soprattutto perché in questi ultimi giorni guardo mia moglie e i miei figli chiedendomi se davvero, nel tempo, ho sempre fatto la cosa giusta per loro. Ci sono momenti della vita in cui, oltre ad avvertire un senso di naufragio, bisogna pure caricarsi un subdolo senso di colpa.
Fisserei l'inizio di questa mia storia con l'avvento dei Fondi comuni d'investimento, nella seconda metà degli anni Ottanta. È un momento particolare, per me: sono colpito dal fascino di un'idea veramente suggestiva. E cioè l'idea di unire i miei quattro soldi, una insulsa e inutile goccia nel mare dei mercati finanziari, a tante altre gocce uguali, facendole diventare tutte assieme un grande mare niente affatto insulso e niente affatto inutile, realizzando vantaggi per noi e anche per il mondo delle aziende in cui si va ad investire. Lo ricordo con tanta nostalgia: è un periodo bellissimo. In questa stagione realizzo interessi anche del venti per cento. È vero, pure l'inflazione è molto più alta dell'attuale, ma vedere il mio piccolo capitale crescere continuamente mi dà quasi euforia. In famiglia si diffonde un clima particolare, ci permettiamo degli sfizi che mai avremmo pensato: una televisione in più, una lavatrice cambiata prima dell'allagamento fatale, un albergo a tre stelle dopo tanti anni di pensione Mariangela.
Lo ammetto: è in questa fase che le sirene della finanza cominciano a suonare così amabilmente. Avevo sempre pensato che i soldi si facessero con i calli alle mani, improvvisamente apprendo che si possono moltiplicare con delle semplici firme. A questo gioco prendo gusto. Così, nel tempo, le mie aspirazioni e le mie pretese aumentano. Ad un certo punto, decido persino di mettermi in proprio: è il momento della mia entrata in Borsa. Compro e vendo in prima persona, affidandomi soprattutto ai sagaci consigli degli scafatissimi consulenti bancari. Abituato a leggere la Gazzetta dello sport sul bancone del bar, improvvisamente mi scopro a comprare spesso anche il Sole-24 ore. Tengo d’occhio le quotazioni, conteggio con la calcolatrice gli incrementi della mia personalissima scommessa. Siamo negli anni Novanta, in giro per il mondo tutti quanti fanno soldi. La Borsa è un Toro, che non è un modo di dire: sulle mie dispense ho imparato il significato tecnico di questa metafora. Sulla groppa del Toro, chi mi ferma. Addio alla mestizia dei titoli pubblici, a questi tassi d’interesse penosi e meschini. Ci chiamavano Bot-people, con chiara venatura spregiativa. Ma adesso non più. Siamo in piena new economy, la facile economia dei servizi e del virtuale. Le copertine dei mensili patinati mi fanno conoscere il genio dei nuovi demiurghi, capaci con due uffici e quattro computer di decuplicare, centuplicare, moltiplicare mostruosamente le quotazioni delle mie azioni. In certi momenti mi chiedo se tutto ciò sia umano, ma loro mi rassicurano: tranquilli, avanti così, non c'è limite a questa nuova Provvidenza, la new economy è il futuro.
Il futuro non è lunghissimo: si ferma nell’anno 2000. In tanti adesso dicono 2001, ricordando il trauma delle Torri Gemelle. Ma non è vero: la cosiddetta bolla, il magico mondo delle favole, esplode esattamente con la fine del secondo millennio. È un attimo. I geni che ci avevano garantito sulla tenuta della grande ricreazione spariscono misteriosamente dalla circolazione. Tutti in fuga sulle barche a vela, verso gli approdi amici delle isole caraibiche, dove a tempo debito hanno preparato i loro bravi salvagente.
Io qui, rintronato alle tramvate. I miei risparmi si trasformano: erano consolante sicurezza, diventano il nuovo incubo. Perdono continuamente valore. In molti casi si riducono a carta straccia. Quel che riesco a salvare costituisce un problema: dove metterli, a chi affidarli. È a questo punto che si apre la stagione memorabile delle obbligazioni, meglio dette bond. Bond, sono James Bond: torno a sentirmi davvero forte. Sempre consigliato dal consulente bancario, che la sa lunga, che fa solo il mio interesse, presto soldi all’Ucraina e all’Argentina, presto soldi a Tanzi e a Cragnotti. In cambio, tutti mi assicurano interessi pesanti e la certezza del rimborso alla scadenza dell’obbligazione. Affare blindato. Almeno, così credo. Almeno, così dovrebbe essere. Invece anche il Bond si rivela alla fine una tagliola micidiale: Argentina, Tanzi, Cragnotti, è tutto un crack e nessuno restituisce più niente. Né interessi, né capitale. L’unico risultato concreto che ottengo è la definitiva perdita di fiducia nella mia banca. L’unica certezza che mi restava.
Come sono ridotto adesso? Non bene. Il conto corrente non rende nulla. I fondi d’investimento sono fermi a dieci anni fa (non sono così sprovveduto: anche dieci anni di mancati guadagni sono una grossa perdita). Il massimo che mi posso concedere è qualche «Pronti contro termine» a tre mesi. Porto a casa quasi il 4 per cento netto. Giusto giusto quello che mi mangia l’inflazione. Non mi nascondo la verità: al termine della mia storia, dopo averne provate di tutti i colori, mi ritrovo con un’amarissima certezza: il risparmio non rende più nulla. È già molto se riesco a salvare il capitale. Ma persino questo penosissimo risultato, negli ultimi giorni, non mi sembra più così scontato. Da qualche notte, osservando mia moglie e i miei figli mentre dormono ignari, penso cose turpi: temo di alzarmi all’indomani con la notizia che un crack globale e definitivo s’è mangiato tutto, riportandomi indietro agli anni cupi dei miei nonni, quando il problema non era comprare o vendere azioni, ma mangiare.
Forse, come dicono anche in queste ore tanti rassicuranti specialisti, sono soltanto un po’ apprensivo. Ma così, ormai, sono ridotto io. Un mezzo paranoico. E anche un inguaribile nostalgico: ripenso in continuazione a quando i risparmi mi fruttavano i soldi per comprare un televisore in più, per cambiare la lavatrice prima del fatale allagamento, per aggiungere una stella agli alberghi delle mie vacanze. Ci penso e mi viene molta tristezza.

Eppure, se devo essere sincero, non è questa la cosa peggiore di tutte. C’è qualcosa di più beffardo e di più doloroso, in questa mia personale odissea: da anni, gli economisti si ritrovano nei convegni per capire come mai, misteriosamente, io non consumi più.
Cristiano Gatti

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