«Vi spiego cos’è New York: il sogno di noi maratoneti»

«Vi spiego cos’è New York: il sogno di noi maratoneti»

La maratona è ormai una passione anche italiana. Da Roma a Firenze, Da Venezia a Milano i numeri crescono e sono sempre di più gli amatori ci provano. Ma per tutti il sogno resta New York, un rito che tra poco meno di un mese si ripeterà e che porterà sulle strade oltre 40mila appassionati. Staten Island, il Bronx, il Queensboro Brigde e l’arrivo in Central Park fanno parte dell’immaginario di ogni maratoneta lento o veloce che sia. Una volta nella vita si deve correre a New York. Una volta nella vita si può anche vincere a New York. E venticinque anni fa a tagliare il traguardo della più importante maratona del mondo era il nostro Gianni Poli, primo azzurro a scendere sotto le 2ore e 10 minuti sui 42 chilometri.
Quel giorno le ha cambiato la vita...
«Sì, un po’ sì. Se la maratona che ho vinto in Giappone, a Fukuoka, mi aveva fatto entrare nel giro degli atleti che contavano quella di New York mi ha dato la popolarità. Chi vince nella Grande Mela mette il sigillo a una carriera. Io sinceramente quel giorno non me l’aspettavo. Poi però al trentesimo chilometro quando ho visto l’australiano De Castella che si staccava e sono rimasto solo ho cominciato a crederci. Gli ultimi 100 metri sono stati i più lunghi della mia vita, non finivano più. Poi ho realizzato e mi sono reso conto di cosa avevo combinato...».
Da Londra a Berlino sono tante le maratone famose ma perché tutti vogliono correre a New York?
«Perché non è solo una gara. È un evento che ti coinvolge prima, durante e dopo. Chi è stato a New York lo sa. Scendi dall’aereo, entri in un ristorante, cammini per strada e la gente ti ferma, ti chiede se sei venuto qui per la maratona, se corri, se è la prima volta. È una città che respira e si muove con gli atleti, con gli appassionati. È un clima unico, irripetibile. Chi ha gareggiato qui se lo ricorda per sempre».
Lei dopo la vittoria l’ha più corsa?
«Sì, due volte. Nel ’94 quando ho deciso di chiudere la mia carriera agonistica e nel 2001 dopo l’attentato alle torri gemelle da semplice amatore, nelle retrovie e senza dirlo a nessuno. Ho pensato che fosse giusto esserci. Quella città mi aveva dato tanto e io volevo testimoniarle la mia riconoscenza. Anche quella volta è stata una gara indimenticabile seppur per ragioni diverse. La città era spaventata, quasi spettrale ma quello è stato il primo gradino su cui sono saliti i newyorchesi per ripartire...».
Ora ci torna ogni anno. Non le viene voglia di riprovarci?
«Sì per lavoro seguo tutte le edizioni della New York city marathon. Con l’agenzia Victory organizziamo la trasferta e la guida tecnica per gruppi di appassionati. Mi piace riassaporare il clima sulla linea del traguardo, veder arrivare i campioni e poi tutti gli altri. Da qualche anno mi segue mia figlia che continua a ripetermi quando la farò con lei. Sinceramente sto lasciando cadere un po’ il discorso ma mi sa che prima o poi mi tocca...».
In tutti questi anni questa corsa è diventato un vero business. Cosa è cambiato?
«Beh, intanto sono cambiati i numeri. Da 15-20mila ad oltre 40mila ma forse anche di più. Il vecchio staff dell’organizzazione è stato quasi radicalmente sostituito e la maratona muove un gran giro d’affari ed è giusto che sia così. Ma lo spirito è rimasto lo stesso. E poi gli americani alla loro maratona ci tengono, guai a chi gliela tocca. Pensi che all’arrivo, dopo che uno magari ha corso per 5 ore è costretto a incolonnarsi e fare una coda di tre o quattro chilometri prima di arrivare ai camion dove gli restituiscono la borsa con gli indumenti asciutti. Eppure non c’è una critica. nessuno si lamenta. Da noi in Italia non va proprio così...».
Manca poco meno di un mese al via. Chi si doveva allenare lo deve già aver fatto. Quali sono i consigli?
«Quando correvo tre settimane prima di una maratona io ero abituato a correre una mezza come test di gara. E questa è una regola che può valere anche per gli amatori.

Il consiglio che mi sento di dare a chi va a correre a New York è di partire adagio, tenere un ritmo regolare perché l’ultima parte di questa corsa è la più difficile. E comunque non pensare a al record personale: è un sogno, il vero consiglio è quello di goderselo in pieno».

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