Il Giornale, vorrei sperare non per simpatie politiche o personali, ha chiamato «rivoluzione estetica» il programma da me presentato insieme all'assessore Maurizio Cadeo, per l'indicazione di alcuni luoghi eminenti della città di Milano, che saranno ordinati, sistemati, ripuliti (non «riqualificati»), come simboli di un più radicale progetto del cosiddetto arredo urbano. Io ho preferito parlare di un progetto di etica dell'estetica cittadina, quasi a sottolineare la responsabilità non solo dell'amministrazione, ma delle importanti associazioni, dal Fai a Italia Nostra a Legambiente, ai Comitati di quartiere, che indicano ragioni più alte, nella difesa dei simboli della città, rispetto ad alcuni progetti che sembrano rispondere soltanto a esigenze pratiche.
È il caso, evidentemente, del parcheggio in Sant'Ambrogio che, al di là della semplicità del progetto, è stato criticato per ragioni di opportunità da cittadini che richiamavano la sacralità del luogo e l'inopportunità di violarla proprio nel luogo consacrato: «in sagrato». Come per la Piazza del Duomo, occorre anche la responsabilità degli amministratori nello stabilire ciò che è conveniente e degno in una grande città nei suoi punti più eminenti. Al di là dei cittadini più sensibili, nei Comitati per Sant'Ambrogio, o per via Benedetto Marcello, dove lo spazio alberato è ancora negato per non limitare l'attività di ambulanti, è abbastanza significativo l'inaspettato successo della mia proposta di limitare l'uso indiscriminato di Piazza Duomo da parte non solo delle autorità ecclesiastiche, ma del Presidente dell'Assoedilizia e di altri rappresentanti delle istituzioni, che aspettavano un segnale di richiamo a principi elementari, rispetto al disordine senza regole, da parte dell'amministrazione.
Io avevo semplicemente manifestato un umore, una considerazione legata a spazi cittadini per manifestazioni musicali o teatrali diversi dalla Piazza principale. Ma mentre, di dichiarazione in dichiarazione, si aprono non solo spazi fisici, ma spazi di discussione, le parole acquistano un peso e indicano intenzioni che non possono ovviamente essere immediatamente fatti né possono essere giudicati come se in un giorno si dovessero vedere immediatamente i risultati. Appare per questo singolare che, quella che il Giornale giudica una rivoluzione estetica, la Repubblica, probabilmente per un pregiudizio politico, che non vorrei considerare simmetrico alla simpatia espressa da il Giornale, insiste in giudizi severi come se, prima ancora di cominciare, ogni proposta e ogni obiettivo fossero mancati. Editoriali precoci, prima di un valoroso scrittore come Antonio Scurati, molto severo a due giorni dal mio insediamento come assessore; poi del meno noto Sebastiano Brandolini, e ora di Jacopo Gardella, catastrofista con già amare riflessioni dal titolo «Quando si cambia tutto per non cambiare nulla».
Mi chiedo, infatti, cosa vogliano dire le conclusioni di Gardella, rispetto alla pura enunciazione sommaria di una conferenza stampa: «Si è costretti a constatare che niente è cambiato»? Rispetto a quando? E in quanto tempo? Dopo tre ore dalla conferenza stampa? Il mondo non si cambia con l'arredo urbano: se mai la sua superficie. E, da che mondo è mondo, l'arredo urbano non è l'urbanistica. Nessuna delle obiezioni di Gardella, oltre l'insofferenza, ha consistenza reale. D'accordo con l'Assessore Cadeo, dopo alcune inutili schermaglie giornalistiche, che potevano far apparire in conflitto, senza alcuna ombra di verisimiglianza, le sue posizioni e le mie in materia di estetica della città e arredo urbano, si è deciso di indicare, per campioni, alcuni esempi di pulizia e di decoro rispetto alla mancanza di rigore e al clientelismo con cui sono stati affidati ad architetti o ad artisti generalmente amati dalla sinistra, interventi inqualificabili di «riqualificazione urbana».
Ho voluto indicare alcuni luoghi degradati e alcuni luoghi a rischio, senza alcuna ambizione di sistema, ma con un «criterio» tutto meno che casuale e gratuito. Luoghi simbolici per la storia e per l'architettura di tre epoche diverse, ma tutte fondamentali per Milano: l'età romana, il Rinascimento, l'età neoclassica. Il «criterio» mi sembra chiaro. Né posso credere che sembrino accettabili, anche senza immaginare di spendere milioni di euro, le condizioni attuali di presentazione di quei luoghi monumentali, tra grotteschi corpi illuminanti e fioriere di cemento, a San Lorenzo come a Santa Maria delle Grazie.
Delle tre aree monumentali citate, è difficile dire che «non sono di certo le uniche a Milano, né forse le più significative». Che siano tra le più significative mi pare indiscutibile, che siano le uniche degradate, certamente no. Ma la patologia di San Lorenzo è evidente a tutti, a un livello di indecenza quasi insostenibile. Dunque, il tema conduttore dei «campioni» è nel simbolo, storico e anche urbanistico, che essi rappresentano.
Logico, quindi, essendo «campioni» di epoche diverse, (criterio, come ogni altro, discutibile) che «le località (sic!) non risalgano ad uno stesso periodo né rappresentino lo stesso stile, né appartengano ad una stessa tipologia urbana o architettonica». Non vedo perché per l'arredo urbano il criterio di omogeneità rispetto alle epoche storiche sulle quali intervenire «sarebbe stato più razionale e costruttivo». Banalità, temerariamente espresse da Gardella, come i luoghi comuni identificati con gli aggettivi convenzionali e abusati «razionale» e «costruttivo». Categorie inutili, senza la bontà e l'intelligenza degli interventi.
È il quarto punto del programma, infatti, a rispondere alla demagogia di Gardella, che critica anche i memoriali a Falcone e Borsellino e al Commissario Calabresi. Con inaudite considerazioni sulla scelta «del tutto antidemocratica» degli artisti, senza un concorso pubblico per favorire i soliti noti. Per una città abituata a patire orribili monumenti, per concorso o per raccomandazione la chiamata di un artista come Ivan Thimer, che se è illustrato in Francia lavorando a Bordeaux e a Parigi, dove restano memorabili i suoi obelischi per l'Eliseo commissionati da Mitterrand, ha proprio il significato di evitare i soliti noti, non «precludendosi la possibilità di interpellare nuovi artisti, e di conoscere nuove idee». Con l'impegno e l'anima di Thimer, Gardella potrà per l'appunto conoscere nuove idee.
E, d'altra parte, proprio l'attenzione della città e la richiesta di restaurare i bagni misteriosi di De Chirico, testimoniano il riconoscimento per un monumento e per un artista che fu chiamato perché era De Chirico. Ultimo monumento pubblico memorabile di Milano. Quanto al merito dei due interventi criticati al buio da Gardella, mi dispiace leggere cose che io dico da anni: il problema dell'Arco della Pace non è, evidentemente, per illuminarlo diversamente, ma, appunto, la «mancanza di collegamento col contesto circostante», avendo perso il nesso sia con Corso Sempione che con la Mole del Castello. Esattamente al contrario di quello che pensa e crede Gardella, fu proprio l'architetto Viganò a isolarlo in un cerchio insensato, coronato di inqualificabili lampioni a palle volanti, che lo isolano dal contesto urbano, svuotandolo di funzione urbanistica per farlo diventare monumento di se stesso. Se oggi è «tristemente negletto» si deve proprio a quella sistemazione sbagliata che io denuncio da anni.
Nessuna prosopopea nell'indicare una grave anomalia narcisistica di una progettazione degli anni Settanta rispetto alla storia e al significato di una urbanistica di un luogo, di un episodio architettonico nella strategia urbanistica dell'età neoclassica. Viganò, isolando l'Arco della Pace, ha tradito la città depotenziando un elemento vitale come l'Arco della Pace, e rendendolo astratto e incongruo. Ma una conferenza stampa non è la sede in cui discutere di progettazione urbanistica e neanche di storia, pretendendo di criticare, oltretutto, attraverso le riduzioni ulteriori e inevitabili, delle agenzie. Presentare progetti e coltivare buone intenzioni, dandone l'indice, non vuol dire entrare nel dettaglio di storici concorsi pubblici mai giunti a compimento. Compito dell'assessore Cadeo è - con tutto il sostegno di un Comitato di Vigilanza per l'Estetica della città, costituito fra gli altri da architetti ed esperti, come Marco Romano, Roberto Peregalli, Dino Gavina, Gionata Rizzi, Luisa Beccaria - , studiare la situazione dei luoghi e la storia di tutti gli interventi proposti nel corso degli anni e documentati negli archivi dell'amministrazione comunale.
Dopo una tale approfondita analisi si tenteranno le soluzioni più opportune per restituire dignità a quei luoghi. E allora, caro Gardella, si potrà discutere. Magari non con me, ma con valorosi architetti e urbanisti. E capire non solo cosa, ma come si dovrà cambiare. Anche per la sua serenità interiore.
Io intanto preferisco pensare, con il Giornale, di avere iniziato una rivoluzione estetica. E, intanto, resistendo al concetto vanaglorioso e presuntuoso di «riqualificazione». Come può un architetto oggi pensare di «riqualificare» l'età romana, il Rinascimento, o l'età neoclassica? Dovrebbe semplicemente avere l'umiltà di riconoscere e restituire la qualità di quelle epoche sfregiata, depauperata, sfigurata da interventi squalificanti. La rivoluzione è nel riconoscere e restituire la storia a se stessa, interpretandola con delicatezza, come a Milano non è stato fatto negli ultimi quarant'anni. Difficile pretendere che a tanti orrori si possa riparare con una conferenza.
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