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"L'inclusività? È una bandiera da sventolare solo di facciata"

La crisi, il cambio di vita, i giudizi impietosi sulle ipocrisie di moda e social e le nuove mete da raggiungere alla ricerca di una bellezza "che scuota le coscienze". Sara Melotti si racconta

"L'inclusività? È una bandiera da sventolare solo di facciata"

Credere di avere tutto e a un certo punto dire basta. Un lavoro di successo, la fama, la vita da sogno a New York, l'appartamento nell'East Village. Poi, la crisi e la scelta di mollare per girare il mondo alla ricerca di sé: una storia come tante. Non proprio. Sara Melotti, da affermata fotografa di moda non si limita a chiudere con una realtà dagli standard tossici e artefatti. In poco tempo, si costruisce un’alternativa, di vita e di lavoro, che fa dell’autenticità la sua cifra, forte di una community che oggi conta quasi 80 mila follower. Dal progetto fotografico Quest for beauty al blog, al libro, in otto anni diventa un punto di riferimento nel settore della fotografia di viaggio. Il suo segreto? Il coraggio di scombinare le carte sul più bello per rimettersi in gioco. Il coraggio, di fare una scelta per raggiungere una nuova meta. Ci siamo fatti raccontare perché il prossimo progetto, la docuserie Ask a Local, per esplorare il mondo attraverso le infinite sfumature della bellezza “sarà qualcosa che non si è mai visto in Italia” a cui tutti potranno contribuire (qui il link per sostenere il progetto).

Otto anni fa hai mollato tutto per girare il mondo da sola in cerca del vero significato della parola “bellezza”. L’hai trovato?
"Credo di sì. Questa mia ricerca mi ha portata a capire che la bellezza non si vede, si sente. La bellezza è qualcosa di molto più profondo e più alto di quello che crediamo, qualcosa che riguarda la vita e il pianeta, qualcosa che ci riguarda tutti, qualcosa che non ha forma e il cui significato non è né definibile né etichettatile, cambia per ognuno di noi, in base a quello che sentiamo".

Perché nel tuo progetto fotografico Quest for Beauty scegli di ricercare la bellezza solo attraverso gli occhi delle donne?
"Il progetto è nato da una presa di coscienza, che poi è diventata una crisi di coscienza. Lavorare nella moda aveva completamente distorto la percezione che avevo della mia immagine. Nello specchio avevo iniziato a vedere una nemica, un mostro, un corpo da combattere; lo stesso valeva per la schiacciante maggioranza delle mie amiche, ho iniziato a chiedermi perché ci vedevamo così? Facendo qualche ricerca (una delle risorse più importanti è stato il documentario “The Illusionists” di Elena Rossini), piano piano ho capito che quella che io chiamo “l’industria dell’insicurezza” - le industrie di moda, bellezza, chirurgia estetica e pubblicità - crea appositamente tutta una serie di insicurezze nelle donne legate al loro corpo, per poi nutrirsi di esse con il solo scopo di vendere più prodotti, a scapito dell’autostima e della salute mentale di una fetta enorme della popolazione femminile globale. È un discorso complesso di cui ho parlato in un reportage sui miei canali, si chiama “Mai abbastanza - Perché non riusciamo a piacerci così come siamo”. È per via di questo dinamiche malate che ho scelto di concentrarmi sulle donne e sulla loro visione della bellezza".

Quindi gli uomini non sono vittime di queste dinamiche?
"Le donne subiscono quell’ideale irreale più degli uomini. Pochi uomini soffrono della sindrome del “mai abbastanza” che affligge invece una percentuale scandalosa di donne. Questo perché c’è molta meno attenzione mediatica sui corpi degli uomini rispetto a quelli delle donne, che sono sotto costante osservazione, monitoraggio e giudizio pubblico. Ma nel futuro prossimo voglio espandere la ricerca includendo anche il punto di vista degli uomini, perché la bellezza come la intendo io è un tema universale".

Un’immagine, una frase detta e un volto incontrato che fotografano la bellezza per te.
"È difficile dare una sola risposta, ce ne sono tante, troppe per sceglierne una sola".

Cosa, invece, hai capito che non è bellezza, ma ci viene passato come tale?
"Tutto quello che ha anche fare con le apparenze, l’estetica e il corpo".

Quando facevi la fotografa di moda, ti sei accorta che contribuivi a creare “degli standard di bellezza irreali e irraggiungibili che facevano stare male moltissime donne” e quindi hai deciso di smettere. In questi otto anni è cambiato qualcosa?
"Se una donna grassa non trova mai la sua taglia nel 90% dei negozi, se non vediamo mai un viso “brutto” rappresentato mediaticamente possiamo davvero parlare di inclusività? A mio parere nella maggior parte dei casi la narrazione è quasi sempre vuota retorica, e a volte mi sembra pure pura paraculaggine. Lo vedo nella moda ma anche in tanti altri contesti: spessissimo quando viene sventolata la bandiera dell’inclusività lo si fa di facciata. Ai brand interessa il profitto, mica il bene comune o la salute mentale delle persone. Ultimamente mi sembra che la parola inclusività si sia ormai svuotata di significato e che spesso racchiuda in sé ipocrisie imbarazzanti".

Pensi che i social contribuiscano a scardinare i canoni di bellezza o mostrano solo una realtà irraggiungibile e costruita spacciandola per normale?
"Credo che i social siano un enorme macchina di distorsione della realtà. Per quanto riguarda i canoni di bellezza basti pensare ai filtri e a come il loro uso (o abuso) stia portando innumerevoli teenagers a soffrire di “dismorfia digitale”. È tutto così illusorio online. Oltre a vedercela con i soliti standard di bellezza irreali, con i social dobbiamo fare i conti pure con standard di vita irreali. Sui nostri feed mettiamo solo dei ritagli accuratamente selezionati delle nostre vite, ritagli minuscoli che rappresentano una frazione millesimale dell’insieme, di solito rappresentano il meglio del meglio. Traspare un 10% di chi siamo veramente. Questo crea un circolo vizioso di sensi d’inadeguatezza onnipresenti, di paragoni continui, di pressioni performative sfiancanti. I social hanno il potenziale di fare cose incredibili, ma anche di fare danni devastanti. Bisogna usarli con tanta tanta consapevolezza".

Possiamo dirlo: con quasi 80 mila follower su Instagram sei anche una “influencer”. Come si resiste alla tentazione, da te denunciata già anni fa, di trasformarsi in “un mostro” a prova di algoritmo?
"Facendo dell’autenticità e dell’onestà un punto di forza, restando veri a se stessi, senza tradirsi o svendersi, sopratutto se si è artisti. La cosa peggiore che possa succedere ad un artista è iniziare a creare/fare cose per il pubblico, per il mercato o per seguire i trend. In tanti cadono nelle trappole dell’ego e della gratificazione istantanea - remunerativa e in termini di scariche di dopamina - ma, come diceva Terzani, sono fortemente convinta che sia “meglio fare quel che è giusto piuttosto di quello che conviene”. Ne ho fatto un mantra di vita".

Ora, però, ti sei accorta che la fotografia non ti basta più. Da qui nasce Ask a local. Perché lo definisci “il sogno con la S maiuscola”?
"Il mio Sogno con la s maiuscola è raccontare il mondo per quello che è: un posto incredibile e complesso, a volte meraviglioso, a volte brutale, dove la bellezza e gli orrori coesistono nello stesso luogo, nello stesso istante. Con Ask a local, usando la ricerca della bellezza come scusa, voglio portare gli spettatori dentro mondi lontani, a volte incomprensibili per la nostra cultura occidentale. Voglio creare una sorta di poesia visiva volta ad aprire i cuori e le menti e scuotere le coscienze. Ask a Local è quello che voglio veramente fare con il resto del tempo che mi è stato dato. Credo di “esser stata messa qui” in questo strano posto chiamato vita per raccontare storie, lo faccio già, è il mio mestiere: lo faccio con la fotografia, con il video, con la scrittura, a volte unendo le tre cose".

Che, però, hanno dei limiti.
"Lavorando così, ho molti limiti pratici: mancanza di risorse, di tempo, di energie, ma sopratutto mancanza di persone. Finora ho sempre fatto tutto da sola e la creazione finale ne soffre. Voglio raccontare storie su scala più ampia, andando più in profondità, e con una qualità da grande schermo. Una docuserie è l’unico mezzo che mi permetterebbe di farlo. Ask a Local mi darà finalmente l’opportunità di tradurre in qualcosa di tangibile ciò che io vedo nella mia testa da anni. Credo che il nostro paese abbia bisogno di una finestra umana, onesta e empatica sul mondo. Ask a Local sarà quella finestra. E sarà bellissimo, sarà qualcosa che non si è mai visto prima in italia!".

“La felicità è una scelta” è il titolo del tuo libro. Come si fa a fare quella giusta?
"Bisogna decondizionare il pensiero da quello degli altri e della società ed imparare ad ascoltarsi. Con ascoltarsi, intendo ascoltare il cuore e le viscere, invece di credere a tutto quello che ci dice la mente, che spesso mente. Seguire quella Voce - chiamatela istinto, intuito, anima - è l’unico modo per rimanere veri a se stessi, e trovare così la propria strada. Non è facile, ci vuole pratica e un ostinazione alla consapevolezza, che spesso è dolorosa".

E tu pensi di averla ascoltata davvero quella voce?
"Se guardo indietro vedo che tutto è andato come doveva andare, tutto è successo per una ragione, ogni scelta che ho fatto si è rivelata giusta, anche quelle più sbagliate, perché tutto è servito a portarmi dove sono ora, e dove sono ora servirà a portarmi esattamente dove devo andare.

Credo che Ask a Local sia la meta finale, o forse il vero inizio, chi lo sa".

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