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"Questo bar è una casa": rituali italiani che narrano di cultura e di antica ospitalità

Nei bar italiani molti habitué si muovono come a casa, considerando gli spazi un’estensione di quelli domestici, integrati nell’esperienza di vita quotidiana. Nelle metropoli il rapporto tra baristi, clienti e luoghi gestiti dalle grandi catene perde la sua familiarità e si cristallizza. Eppure l’occasione per socializzare si trova anche lì. Basta cercarla

"Questo bar è una casa": rituali italiani che narrano di cultura e di antica ospitalità

Entrare al bar di sempre e sentirsi chiamare per nome, come a casa.

Buttare lì un “il solito, grazie” con nonchalance, così che gli avventori di passaggio abbiano ben chiaro come si distingue un habitué.

Occupare con ogni mezzo a disposizione il tavolo preferito per segnare il territorio.

Mostrarsi contrariati fino ad esternare il proprio disappunto quando un ignaro nuovo ospite se ne sia casualmente appropriato.

Agire da disturbatori con astuti mezzi perché questi sloggi nel più breve tempo possibile.

Ritenere senza dubbio che, in qualità di affezionato cliente, prendere in ostaggio contemporaneamente tutti i quotidiani messi a disposizione dal bar per la lettura, sia un diritto acquisito.

Scambiare con il barista risate e chiacchiere sul tempo, la politica e lo sport, farsi fare credito se si è dimenticato il portafogli ed avere sempre l’ultima parola. E pretendere di avere ragione.

Perché il cliente ha sempre ragione ed è il Re, almeno in Italia e ama sentirsi tale.

Ecco alcune familiari, divertenti quanto autentiche scene di ordinaria e generosa ospitalità, tanto frequenti nei bar nostrani.

Che nelle grandi metropoli colonizzate dalle catene di fastfood e fastdrink non si sono mai viste.

Lì gli scenari mutano radicalmente. Armati di carta di credito, vigili e concentrati sul codice segreto da digitare (ripetuto mentalmente fino al proprio turno) prendere un caffè a New York (avara in certi quartieri di bar all’italiana) in uno dei tanti self service disponibili, può essere un’esperienza rocambolesca.

Che inizia con lunga coda che però scorre così velocemente da privare l'avventore del tempo di decidere se il caffè lo vorrà grande, piccolo o medio (con il dubbio che quel grande sia davvero extra large) impedendogli di dedicare tempo al ripasso dello spelling del suo nome.

Da sillabare con solerzia perché Ii cassiere lo esigerà per scriverlo sul bicchiere di carta della misura prescelta allo scopo di consegnare il caffè alla persona giusta, come in un appello.

E il cliente potrà inventarlo per motivi di privacy (perché ad un certo punto il suo nome verrà letteralmente urlato nella sala) o ridurlo ad un diminutivo per motivi di spazio se la bevanda è piccola e lo spazio dove scrivere ridotto.

Ma sono tutte soluzioni da ponderare in anticipo, valutando il rischio che possa giungere freddo a destinazione se alla seconda chiamata non si dovesse riconoscere quel fasullo e storpiato nome d’arte autoinflitto.

Impensabile anche richiedere delle varianti negli ingredienti o nella temperatura della bevanda scelta (così gettonate nei nostrani bar) senza creare disagi.

Al rallentamento delle operazioni provocato da richieste impreviste si leverebbe un vento di aliti sbuffanti provenienti dalle bocche assetate dei frettolosi avventori in coda, impazienti di recarsi altrove.

Un senso di soggezione che trasforma il rito del caffè in un momento privo di spontaneità.

Che rimanda più al dovere, che prevede tra i vari compiti anche quello di liberarsi, una volta terminata la bevanda, di ogni resto del presunto piacere consumato in piedi, sparecchiando e differenziando tutto con oculatezza negli appositi spazi dedicati.

Quanto alla scelta del tavolo, qualora si decidesse invece di trattenersi e consumare l’ordine seduti, l’egoismo è bandito.

Vige l’obbligo (o la libertà) di condividere gli spazi con sconosciuti di cui però, con un certo vantaggio, si conosce il nome (presunto o d’arte) sbirciabile sul bicchiere di carta.

Un trascurato elemento agevolatore di conversazioni tra perfetti sconosciuti in un territorio neutrale, così diverso dai caffè nostrani.

Se non fosse che la facilità di accesso alla password del wifi del locale, impressa a caratteri grandi sullo scontrino, invita alla connessione e quindi all’isolamento.

Quella stessa connessione che probabilmente grazie ai quotidiani e alla conversazione con il barista non ci si è mai sognati di chiedere al bar sotto casa.

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