Viaggio all’inferno ma con la scorta

Massimiliano Governi (nella foto), in Chi scrive muore, va letto con il cranio scoperchiato e la gabbia toracica divaricata, affinché il cuore palpiti. Fuori di metafora: il lettore la storia la deve aspettare passivamente, non va rincorsa armati di nozioni e vizi tipici che si usano per leggere gran parte della produzione letteraria odierna. Governi stupisce e morde, provoca e sta muto senza muovere un grammo di furbizia. Chi scrive muore (Bompiani, pag. 118 euro 16,00) racconta di Angelo, caposcorta di uno scrittore al quale la mafia ha giurato di fare la pelle. Un capitolo narra di Angelo; un altro dello scrittore (Roberto Saviano?) sequestrato dalla sentenza che prima o poi verrà eseguita. La vita di Angelo è una salita di gesti quotidiani affogati in una pece nera; quelli dello scrittore altrettanto.
Governi, con una scrittura ossessiva, fatta di mutismi e dialoghi mozzi e illuminati, sperpera ogni possibile retorica e posizione conciliante per spingersi su un terreno che, pagina dopo pagina, invece di chiarire le figure di carta di due personaggi sociali (Angelo e il probabile Saviano) in qualche modo eroici, esemplari, moralistici, si inoltra, conducendoci su un terreno magicamente arbitrario, dove il labirinto della vita di ognuno, sfida le sabbie mobili del destino. Governi infatti attacca il conformismo delle posizioni e della letteratura. Procede per sottrazione, accumulando in apparenza vezzi e vizi, come quello di un uso seriale e reiterato del «poi»: una specie di metronomo sbilanciato ad accelerare il tempo, facendo finta invece di controllarne l’equilibrio.
Massimiliano Governi è uno scultore invisibile che ha chiaro il caos del potere. Infatti, lo scrittore, che rovescia il titolo del suo romanzo in: Chi muore scrive, muove a tal punto la sua critica radicale all’assurdità del potere (che poi si addiziona ad altri assurdi: la storia, la società, i rapporti di coppia e di amicizia, i vincoli di sangue) da congegnare un romanzo frammento come lo sono certe opere magistralmente incompiute o andate alla malora per gli errori dei pittori. Penso a La Pietà di Michelangelo, a L’Ultima Cena di Leonardo. Oppure alle opere contemporanee di Sergio Ragalzi.
Nel passaggio dei capitoli tra Angelo e lo scrittore costretto alla scorta, la semplificazione dei gesti umili e abitudinari è anch’essa sottoposta da Governi a una ulteriore scarnificazione. Allora il sesso diventa dettaglio, ma chiave di tutte le porte. Una specie di intima barbarie. Il sogno lo stesso; e il più effimero dei movimenti idem. Anche il Boss, pure la sciampista sono di carta all’interno di questa lentezza estenuante. È così, eppure non lo è. Governi con il vizio del poi, accelera non tanto i fatti di Chi scrive muore bensì la metafisica che cementa il tutto.

Quei famosi «poi» ci fanno correre verso il baratro. Il famoso precipizio dove, al fondo, troviamo l’oblio (Leopardi). Comunque una salvezza nella cassaforte del sorriso della Gioconda, Governi la inventa. È il Giaguaro. La creatura che buca il buio della notte.

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