Vicino a Roma c’è un cimitero per armi di distruzione di massa

Dall’iprite al fosgene, finiscono a Civitavecchia le micidiali "atomiche dei poveri" bandite dai trattati internazionali

Vicino a Roma c’è un cimitero 
per armi di distruzione di massa

Civitavecchia - Ci son state annate, prima dei tagli al bilancio statale, con punte di tre, anche quattro migliaia di «colpi». Nell’ultimo triennio, vacche magre per tutti, son dovuti scendere ad una media di cinquecento all’anno. Significa che ne smontano rendendole inerti, due al giorno. Ne restano da smaltire circa cinquemila. Con questi ritmi dunque, salvo sorprese o nuovi ritrovamenti, tra dieci anni potremo dirci a tutti gli effetti un Paese privo di armi di distruzione di massa.

Sì, avete capito bene, stiamo parlando di bombe chimiche, di iprite, fosgene, adamsite, le atomiche dei poveri che hanno reso celebre e «amato» dal popolo curdo Saddam Hussein. Oddio, ce l’hanno tutti, anche i Paesi più civili, nonostante siano vietate dalle convenzioni internazionali. Il problema è che non è semplice distruggere le bombe al gas. E noi ci ritroviamo a dover «svuotare» non solo le nostre, «sperimentate» con successo nella guerra per conquistar l’Etiopia, ma anche quelle abbandonate tanto dai tedeschi quanto dagli alleati nell’ultima guerra mondiale. Meno male che c’è Santa Lucia, sulle falde dei monti della Tolfa poco sopra Civitavecchia. È il Cetli Nbc, il comprensorio militare dove si disattivano le armi chimiche. Un gran bel posto, 600 ettari di bosco e macchia mediterranea, nato negli anni Trenta come poligono chimico: sperimentavano l’iprite sulle pecore. La legge del contrappasso vuole che ora vi si smaltisca l’intero lascito urticante, soffocante e velenoso.

È un lavoro delicato, roba da chimici appunto. Laboratori, automi, computer, massima sicurezza non solo militare. Vi lavorano 200 persone, al comando del colonnello Giovanni Petronio. Personale di prim’ordine: il direttore tecnico, colonnello ingegnere Antonello Massaro, ha fatto parte delle commissioni Onu che andavano a ispezionare i siti iracheni sospettati di nascondere le armi di distruzione di massa, prima della guerra finale a Saddam. È Massaro che ci guida nel cuore del comprensorio di Santa Lucia: palazzine con doppia recinzione e camminamento interno, pattugliato notte e giorno in assetto di guerra, a scanso di tentazioni per ogni possibile aspirante Ali il Chimico. Giriamo per laboratori che sembrano uguali a quelli delle analisi del sangue o delle urine. Con un contorno di ufficiali pronti a placcarti se allunghi le mani dove non dovresti.

«Questo è uno stabilimento industriale, che invece di produrre distrugge», spiega Massaro lasciando intendere che sempre di soldi abbisogna. Già, finché si tratta di svuotare l’arsenale avvelenato del regio esercito, è giusto attingere al bilancio della Difesa. Ma se ti arrivano le bombe chimiche americane, persino quelle austriache della prima guerra mondiale, e poi i proiettili arrugginiti che ogni prefettura regolarmente denuncia, perché non paga la Protezione civile o il Viminale? Comunque, una buona notizia: ora la legge Sviluppo garantisce un milione e due ogni anno, per dieci anni. È questo impegno finanziario, che dovrebbe consentirci di chiudere il capitolo delle armi di distruzione di massa.

Ma quello che scopri qui, è che nonostante si sia stati noi, gli ultimi europei a far la guerra coi gas, tutti abbiano continuato a fabbricare bombe chimiche pur se nell’ultimo conflitto mondiale nessuno le abbia usate. Per la serie del fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio: io me le porto dietro, e se tu me ne sganci una te ne vomito trenta. Tant’è che a Santa Lucia stanno aspettando il prossimo carico, cento tonnellate di iprite che si vanno faticosamente recuperando da una nave americana, la John Harvey, bombardata e affondata nel porto di Bari dai tedeschi nel dicembre del 1943.

Santa Lucia come opera buona e santa, opera dal 1989, ben prima che la convenzione del 1997 imponesse a tutti i Paesi lo smantellamento degli arsenali chimici. La Francia, poiché dice di aver prodotto armi chimiche solo prima del 1925, ha iniziato adesso a disattivarle. La Germania, lo fa da poco. E a noi ci toccano anche quelle austriache del ’15-’18.

Un secolo dopo? Sì, nel 2001 è arrivato a Santa Lucia un carico di mille e passa bombe chimiche ritrovate nella zona dello Spielberg e lasciate lì dall’imperiale esercito austroungarico. Ricorderete, il gas mostarda nelle trincee. I fanti lo chiamavano così per l’odore, tra l’aglio e la senape. Fu battezzato iprite perché le truppe del Kaiser lo usarono per la prima volta a Ypres, in Belgio. Ma stiamo divagando, e anche voi domandereste a bruciapelo: scusate però, visto che quella è l’unica guerra che abbiamo vinto e che lo Spielberg, celebre carcere del Trentino che ha ospitato pure Silvio Pellico, è assai più vicino all’Austria che a Civitavecchia, almeno quelle bombe non si potevano restituire a chi le ha fabbricate? Il colonnello sorride, e non risponde.

Preferisce farti vedere, al di là dei doppi cristalli e sui monitor, come un’apparecchiatura automatizzata congela le bombe, poi una sega metallica ne stacca il fondo, quindi i bicchieroni vengono riscaldati per sciogliere nuovamente l’iprite che viene rovesciata in una vasca. Un’altra macchina bonifica l’involucro di ferro, e in un altro laboratorio l’iprite viene «distrutta». Nel senso che, sottoposta a trasformazione chimica, si trasforma in pappone semi solido, che impastato a cemento diventa un blocco indistruttibile, non certo una caramella innocua ma almeno inerte. Fra le tamerici e le querce ne vedi accatastati a centinaia, di questi cubi.

La lentezza dello smaltimento non è dovuta solo alla scarsità di fondi. «Con le bombe italiane andavamo veloci e tranquilli, sappiamo dove mettere le mani», spiega Massaro, «ma quando ti arrivano bombe corrose che non sai nemmeno chi le abbia fabbricate?». Devi radiografarle una ad una, e poi lavorarle con estrema prudenza e pazienza. «Non abbiamo mai avuto un incidente», vanta. E qui disattivano proiettili che vanno da un calibro di 75 millimetri fino a 155. Vedi che Santa Lucia protegge?

I nostri non si limitano a smontare. Formano controllori, anche per l’Opac che dall’Aia li controlla. Vanno in missione per l’analisi dell’inquinamento ambientale nelle aree dove sono presenti i nostri militari.

Di ogni dotazione che la Difesa si appresta ad acquistare, dalle borracce agli indumenti, giunge qui un campione per essere testato agli effetti delle armi chimiche. Perché tutti le stanno smantellando, pare. E nessuno le costruisce più, dice. Ma non si sa mai.

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