Vidoz e Tyson, perde soltanto la boxe

Il friulano ha compiuto una impresa ma ha evidenziato la povertà di valori di questo sport. «Il tedesco? Un match da stupido». Con l’americano se ne va l’unico personaggio

Riccardo Signori

Addio Tyson, buongiorno Vidoz. Tutto in una notte, pochi spiccioli di brivido per chi ama uno sport ormai profanato. Uno che perde, l’altro che vince, ma la morale è la stessa: comunque perde la boxe. Tyson che se ne va nel modo peggiore, sconfitto ed umiliato. Non più Iron Mike, ma soltanto un perditore dalla mascella fragile. Un uomo a caccia di danaro per pagare il fisco, il sognatore perduto dietro l’illusione che il tempo non sia passato. Lo sventolone di Kevin Mc Bride, un tipo che quindici anni fa sarebbe passato dalla luce al buio nel giro di pochi secondi, è stato l’ultimo segnale di una lunga serie. In realtà la vera carriera dell’ex King Kong si è chiusa nel febbraio 1990, in Giappone, davanti a quel Buster Douglas armadio a tre ante che gli fece sbattere la faccia. Poi è stato tutto un saliscendi di desolazione e resurrezione, depravazione e riconciliazione. E una sola casa in cui sentirsi sicuro: appunto il ring.
Tyson è stato grande davvero per i cinque anni in cui ha spaventato il mondo (1985-1990), non aveva tecnica ma istinto, aveva potenza, non forza interiore. Ma era spaventosamente bestiale. Poi la bestia si è ammansita, perduta dietro mollezze, donne, danari, scaraventata in galera. Ma Tyson, anche quest’ultimo, serviva dannatamente alla boxe: unico nel permettere grandi affari, nel raccogliere intorno a se folle e montagne di dollari, appetito dalle Tv più di qualunque altro guerriero del ring.
Mettere insieme Tyson e Vidoz, è come confondere Brunello con Chianti da fiasco. Ad ognuno, ovviamente, la sua preferenza. Paolo Vidoz, trentacinquenne friulano tutto prosciutto e prosecco, ha compiuto l’impresa della vita. Vero, una sorta di miracolo pugilistico. Presentarsi ad un campionato d’Europa con soli quattro giorni di allenamento, giusto per raccogliere i danari utili a costruire il tetto della locanda, combattere forse il miglior incontro della carriera, dominare un tedesco che si è allenato per due mesi nelle palestre americane, metterlo al tappeto nel sesto round, e rischiar qualcosa soltanto perché ogni tanto il fiato non c’era più e le gambe si facevano molli, è una storia da favola.
Ma anche il segnale dello stato di depressione pugilistico. In altri tempi, i pugili pescati all’ultimo minuto quasi mai andavano oltre la parte della vittima, magari risparmiata. Timo Hoffmann è un bel stangone, ma niente più. Pugilisticamente più arretrato di un ragazzino della scuola elementare. Nel suo bagaglio c’è solo un jab mal usato. Vidoz ha capito tutto e subito, anche prima di salire sul ring. Sul quadrato ha preso atto e ha sfoderato tutta la sua tecnica, arte che conosce meglio di tanti altri. Con quella si è difeso e ha attaccato, si è riparato dal tranello di una preprazione malfatta. Ed è stato effetto bomba. Essendo un tipo bizzarro, con l’imprevedibilità dei bontemponi, Vidoz l’ha raccontata così: «Vedevo che faceva un match sbagliato, proprio da stupido, ma non potevo preoccuparmi per lui». Tanto di guadagnato per il futuro e per la storia della nostra boxe che assomma il sesto campione d’Europa dei pesi massimi, il primo capace di conquistare il titolo fuori d’Italia. Tutto cominciò con Erminio Spalla, negli anni Trenta, tipo stravagante e dalle mille vite come il friulano.


Ed ora viene il bello e il difficile: entro quattro mesi, Vidoz dovrà difendere il titolo contro l’inglese Michael Sprott, quello che è andato a sostituire. Appuntamento in Inghilterra o in Germania. E le tasche si gonfieranno, ci sarà il tanto per finire la locanda e aggiungerci il camino e una mansarda.

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