Difficile parlare di un luogo di vacanza, fin troppo celebrato, come la Versilia. Ne hanno scritto poeti, romanzieri, giornalisti, e le loro parole, nella memoria, si confondono con le frasi fatte degli annunci pubblicitari. Non intendo accusare il turismo, realtà insopprimibile nei nostri giorni; bisogna però tener presente ch'esso, più che far conoscere i luoghi, talvolta li maschera.
Vorrei perciò parlare di una Versilia senza maschera che comincia ad apparire, sia pure sfigurata, verso la fine di settembre, quando si svuota, e nelle vie interne si risentono le voci degli indigeni, soffocate, durante i lunghi mesi estivi dal gran rumore che fanno gli ospiti. L'accento dei versiliesi, contrariamente a ciò che afferma il Carducci, non è dolce. È anzi piuttosto duro, pieno di sarcasmo; e tuttavia, riudirlo dopo la parentesi forestiera, è una consolazione. Ha il sapore delle cose vere.
La Versilia è molto più piccola di quanto si creda. Conosciuta in antico come la Capitaneria di Pietrasanta, si estende di poco oltre il capoluogo. A nord non va oltre il torrente omonimo, più noto, nel tratto finale prima di gettarsi in mare, come Cinquale. I Ronchi, il Poveromo, che per gli italiani sono Versilia, in realtà ne stanno fuori.
Questa zona di confine fino a qualche anno fa era poeticissima. Solitarie viuzze poderali, bianche di polvere, serpeggiavano fra i campi, lungo grigi muretti divisori dai quali sporgevano le chiome grigioargento di vecchi e robusti olivi prima di approdare a case coloniche di solida e onesta fattura, con la pergola, l'aia, l'orto, il pozzo, o a modeste osteriole dove si poteva gustare; assieme ai salumi nostrani, il biroldo, la buzzetta, la zia, la soppressata e il pane casereccio, qualche vino aspretto della collina di Ripa.
Oggi l'industria ha profondamente alterato la fisionomia del luogo. Sopravvivono alcuni tratti, poco più di un fazzoletto, ma sufficienti, per chi ha conosciuto la Versilia di una volta, a risuscitarne l'indicibile fascino.
La fascia costiera che delimita la Versilia a occidente (cioè dalla parte del mare, dal Cinquale al fosso di Motroni, circa dieci chilometri a sud) è la parte che ha più sofferto. Era, fino alla prima guerra mondiale, una foresta impenetrabile che accompagnava la spiaggia a duecento metri dalla battigia. Inutile cercare paragoni con ciò che ne rimane, come la Versiliana, unico tratto di bosco di una certa estensione, una cinquantina di ettari, ancora in piedi. La vegetazione di questo parco è di tipo mediterraneo, pini, lecci, tamerici, mortarelle, ecc.; la macchia versiliese era di tipo nordico, olmi, ontani, pioppi, platani, frassini, perdeva e rimetteva le foglie, lasciando e ritrovando i colori e gli odori delle stagioni. I sempreverdi ne costituivano solo una fetta, o meglio, una schiera, quella più avanzata rispetto al mare, e più sabbiosa, il tombolo.
Che ne è rimasto? Nel corso della prima guerra mondiale fu barbaramente tagliata dal governo per farne legna. Allo scopo erano adibiti prigionieri austriaci alloggiati in due lunghe baracche al Tonfano, vicino alla spiaggia. Questi due edifici «storici», di elegante fattura, hanno durato fino a due anni fa. Al loro posto oggi stanno due orribili bunker in cemento.
La successiva devastazione si è avuta durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi in ritirata si fermarono qui per circa venti mesi. I soldati della Wehrmacht fecero strage di pini e di lecci; e andati via loro, nell'aprile del 1945, fu la volta degli sfollati, migliaia, che dovevano scaldarsi, cucinare, e, infischiandosene delle leggi e del monopolio di Stato, fare il sale. Il massacro durò almeno fino all'estate del 1946, quando la legge e i carabinieri ricominciarono a far sentire la loro presenza. E soprattutto perché il sale lo si poteva di nuovo trovare nelle tabaccherie e gli sfollati stavano tornando alle loro case.
Con tutto il dolore che un versiliese prova confrontando la sua terra d'oggi all'altra, devo ammettere che lo scempio è stato in parte riparato. Al posto della foresta, nella lunga fascia costiera, larga circa un chilometro, c'è una vasta città-giardino. Le villette in genere sono basse, uno o due piani; i condominii rari; non mancano le belle ville, dentro ampi parchi, fittamente alberati. Un insieme, tutto sommato, abbastanza gradevole. Quel che conta poi è il permanere, in questa modernità, dell'antico: cioè di tratti, sia pur brevi, di pineta libera, di pezzi di foresta dall'intricato sottobosco, di fossi melmosi, e anche di casette rustiche, avanzo di quelle che un tempo spuntavano qua e là nell'immensa foresta, ricordando poeticamente la presenza dell'uomo, col tetto di tegole rosse, la pergola, l'orto con i girasoli. La spiaggia è fin troppo conosciuta, nelle sue grandezze e miserie, perché valga la pena di parlarne. Dirò invece della pianura, una volta intensamente coltivata, divisa in maniera geometrica, verde e freschissima, fra la foresta e il margine delle Apuane, che ricordava (e dove rimane ricorda) la Pianura Padana, così amabile nella sua civile regolarità, così umana.
Anche in questa fascia qualcosa dell'antico rimane. Del resto è inutile farsi illusioni. Chi ama il bello, oggi, non può pretendere di vederselo servito su un piatto; deve cercarselo, fra le brutture, le ignominie, con la pazienza di un archeologo. È il segreto dell'arte moderna, è il segreto di Mario Marcucci, il nostro grande pittore. Raccomando certe stradine costeggianti un fosso, che passano fra podere e podere; certi rettangoli di erba folta e profumata fra i filari di pioppi o di ontani. La vista delle montagne che s'alzano repentinamente dalla pianura è superba. Si vedono tutte le cime principali, dal Sagro all'estremo nord, azzurro e aereo, all'Altissimo, nel mezzo della catena, con i suoi fianchi bianchi e rossi dilaniati dalle cave, la eterea Pania, e all'estremo sud il lungo tranquillo Prano, color lilla.
Pietrasanta, il capoluogo, è una città costruita razionalmente, proprio dove la pianura si cuce al piede dei monti. La piazza del Duomo, sotto l'antica Rocca, è di una bellezza abbagliante. Oltre alla cattedrale vi sono quattro edifici di valore artistico e storico; ma quel che conta, più che la bellezza dei singoli «pezzi» è l'insieme, è l'atmosfera. Se da via di Mezzo non soffia la tramontana, anche d'inverno ci si sta come in un salotto. Da Pietrasanta, la strada che fiancheggia il torrente Versilia prosegue verso est e attraverso Vallecchia e Seravezza si addentra fra le Apuane. Anche di queste montagne si è scritto ampiamente. Le ha citate persino Dante. Credo tuttavia che i grandi poeti, compreso il Carducci che vi era nato in mezzo, le abbiano viste solo di lontano. Sono monti, come dice Machado dei suoi, in Castiglia, «que tiene alma». Forse per la vicinanza del mare non hanno rivali nel mondo, per il variare, spesso minimo, del colore. Inutile tentare di descriverli. Il «divino» Gabriele c'è in parte riuscito.
Oltre Seravezza (bellissimo il palazzo mediceo del Buontalenti) e Ruosina, si arriva al Ponte stazzemese, dove, a chiudere la valle, appare quella meraviglia della natura che è il monte Forato, mentre a sinistra si leva, incredibilmente aerea, la punta della Pania. Basta salire su un poggio per avere la vista completa della conca, con le valli strette, le pendici coperte di selve, i pascoli dell'alpe e intorno le cime Corchia, Pania, Forato, Croce, Nona, Procinto, Matanna, Gabberi, Lieto, ognuna con una distinta personalità. I paesi hanno nomi strani, dolci, come Le Molina, Volegno, Levigliani; o aspri, come Pruno, Cardoso, Orzale, Arni, Campagrina, Retignano, Terrinca; forti come Azzano e Stazzema; buffi come Pomezzana, Farnocchia, Basati. Due soprattutto, meritano una visita a parte per la loro urbanistica. Stazzema, adagiata sul fianco meridionale di una collina assolata su cui scendono le ombre del Procinto e del Matanna, e Pruno, in cima a un cocuzzolo a picco sulla valle di Cardoso. Si veda Pruno: somiglia a un carciofo. Dentro il carciofo, le stradette fanno un giro, di foglia in foglia, fino a riunirsi nella piazzetta della chiesa.
Per saperne di più della Versilia bisogna ancora salire, a piedi. Una vecchia mulattiera in un'ora e mezzo porta alla foce di Mosceta, fra la Pania e il Corchia. È una valle solitaria ed erbosa, idillica sotto la minaccia delle rocce strapiombanti. Più oltre si stendono boschi scuri quasi neri di fanie; più oltre ancora, le groppe sonnolente e calde degli Appennini. Non può dire d'essere stato in Versilia chi non ha salito la Pania. Dal Mosceta ci si va in un'ora e mezzo.
Di lassù si vedono la costa dal Magra all'Argentario, le isole e le Alpi Marittime. Eccezionalmente, per quanto incredibile, in giornate di particolare trasparenza si può vedere a occidente, la piramide nera del Monviso. A me questa fortuna è capitata; una volta, ma è capitata.Qui Touring, giugno 1985
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