Dopo aver letto la rubrica che raccoglie le testimonianze di alcuni miei «colleghi» di sventura, mi è venuto spontaneo entrare nel sito e, per la prima volta, scriverle.
Ho 51 anni e ne avevo 38 quando, dopo più di vent'anni di gavetta come dipendente, ho avuto l'incoscienza di mettermi in gioco come imprenditore. Con due figli e una moglie con part time, risparmi zero e un mutuo da cinquanta milioni (di lire) ho cominciato a realizzare il mio sogno: avere uno studio grafico, creare, ideare, progettare. Oggi siamo in nove, il piccolo studio è diventato un'agenzia pubblicitaria che si affaccia al mercato proprio in questo periodo di crisi profonda. Mi creda direttore, non è facile ma non lo è soprattutto perché ci si sente soli e non sto a snocciolare i vari perché che tutti conosciamo alla nausea (nel senso letterale del termine).
Io so solamente, come tanti altri come me, che devo tirarmi su le maniche e rinnovare ogni giorno a me stesso il mio nuovo sogno: mantenere i posti di lavoro, garantire gli stipendi anche a costo di pagarli di tasca mia, non distruggere una realtà alla quale ho dedicato una fetta importante della mia vita, «inventare» nuove soluzioni che riescano ad intercettare i nuovi orientamenti del mercato: in definitiva, accettare la sfida fino in fondo e senza compromessi.
Spesso mi chiedo chi me lo fa fare. Le risposte sono diverse e non particolarmente originali: mio figlio che da tre anni lavora in azienda, uno staff di persone entusiaste del loro lavoro, una figlia che è al primo anno di lettere (fin dalla materna sogna di insegnare italiano, evidentemente assomiglia a papà), mia moglie che da alcuni anni è tornata a fare la casalinga full time perché nel frattempo abbiamo adottato un bambino polacco, che ora ha dodici anni, con un futuro da costruire e un sorriso che ti fa ricominciare sempre e comunque.
Ma perché le ho scritto queste cose?
Forse perché ci credo ancora e penso che testimoniarlo possa far bene a qualcuno? O forse perché dircelo ci fa sentire meno soli e più solidali? O per ribadire che per vincere le sfide ci vuole sempre un po' di sana incoscienza? Anche questo, certo, ma in fondo la motivazione vera è che ancora, orgogliosamente, appartengo a quella categoria di persone che credono profondamente nell'uomo e nel suo sogno di migliorarsi e migliorare.
Grazie dell'ospitalità e complimenti per il «nostro» Giornale.
Sono io che devo dirle grazie. È bello leggere la sua lettera. È la conferma di quanto scriviamo da mesi. È quella voglia di rispondere alla crisi senza piangersi addosso, ma con coraggio, rimboccandosi le maniche ogni mattina, senza smettere di credere in un sogno, nel lavoro, in quella follia che ti fa dire: vado avanti, non mi arrendo. È vero, molti suoi colleghi parlano di solitudine, si sentono quasi stranieri in un Paese dove la piccola impresa non viene tutelata, capita, raccontata. Il piccolo imprenditore italiano non ha romanzieri che ne cantano lepopea. Non piace ai salotti culturali.
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