Vincitori e vinti nella partita di Gabetti e Grande Stevens

I malumori degli Agnelli e i «problemi» di Winteler. Il ruolo di Braggiotti e il peso di Merrill Lynch

Vincitori e vinti  nella partita di  Gabetti  e Grande Stevens

Marcello Zacché

da Milano

In tutte le partite finanziarie, a bocce ferme ci sono vincitori e vinti. La Fiat non fa eccezione. La riconquista del gruppo da parte delle famiglie Agnelli, tramite Ifil, si può leggere anche con la mappa di chi questa operazione ha cercato e ottenuto con determinazione, e chi invece no. Uomini e manager che l’hanno costruita, altri che l’hanno subita.
La storia parte da lontano. Dalle ultime volontà di Gianni Agnelli, che ai suoi due fedelissimi Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens aveva chiesto una sola cosa: consegnare Fiat nelle mani del nipote John Elkann, figlio di Margherita, detto Yaki. La parola di gentiluomini sabaudi fu data. E mantenuta. All’uopo, Gabetti unisce oggi, primo nella storia degli Agnelli, le tre presidenze delle holding: l’accomandita (Sapa), Ifi e Ifil. All’uopo, un manager che rischiava di creare problemi, come Giuseppe Morchio, è stato messo alla porta. Mentre è stato trovato quello che ha riaperto la partita: senza Sergio Marchionne, forse, la storia sarebbe stata diversa.
Il testamento dell’Avvocato, con le tensioni che ha generato in famiglia, segnava la strada: il 30% della Sapa, detenuto dalla società Dicembre, era destinato a Yaki. Così come allo stesso Avvocato, 50 anni prima, il nonno aveva lasciato la Fiat. Gabetti e Grande Stevens dovevano adoperarsi perché a quella quota corrispondesse effettivamente il controllo del Lingotto. Che questo potesse non piacere ai 163 membri delle famiglie, a cominciare dai 5 figli che Margherita ha avuto con Serge De Pahlen, era verosimile: quando la Sapa deve partecipare alle ricapitalizzazioni delle società «a valle», i quattrini li devono mettere tutti. In questo senso, quando Andrea Agnelli, figlio di Umberto, ha ipotizzato una Fiat meno famigliare e più bancaria, ha parlato per tutti. Tranne che per Yaki e i suoi fratelli, Lapo e Ginevra.
Ma l’operazione era già partita fin dal 2003, quando Exor e Ifil hanno cominciato a fare quella cassa che ora viene investita in Fiat. E l’impressione è che un manager emergente come Daniel Winteler, l’ad che in Ifil ha sostituito Gabriele Galateri, si trovi oggi a gestire una holding molto più condizionata da Fiat di quanto non lo fosse quella ereditata da Umberto Agnelli. Non senza soffrirne un poco. E non senza incontrare con varie controparti qualche primo problema.
Il blocco Gabetti-Grande Stevens-Yaki completa la sua geometria con Luca di Montezemolo, la cui presidenza, dice Gabetti in un’intervista di ieri, «non è certo in discussione». Come a dire: ora che Ifil torna al 30% di Fiat e non ha dunque più bisogno dell’appoggio del Sanpaolo (con il suo 6%) per controllare il gruppo, il presidente della banca torinese Enrico Salza si rassegni a Montezemolo. Che notoriamente non ama affatto. In questo senso Salza, che pure apprezza la strategia di Ifil, non è forse tra quelli che hanno stappato champagne, l’altra sera. Ma anche gli altri big del convertendo (Intesa, Unicredito e Capitalia) sono state prese in contropiede dalla mossa di Ifil.
Piuttosto, il côté bancario di Ifil e Fiat si arrichisce di due protagonisti assoluti.

Escluso in partenza un ruolo per le banche italiane, per evitare conflitti d’interesse con la gestione del «convertendo», l’operazione 30% è stata costruita da Gerardo Braggiotti, all’esordio con la sua G.B.Partners, e da Maurizio Tamagnini, ad di Merrill Lynch in Italia. La banca Usa è da sempre in affari con Torino, in compagnia di altre. Ma forse da ora lo sarà un po’ di più di prima.

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