Virzì: "Ecco l’inferno dei precari ma senza scadere nella lagna"

Esce il film del regista dedicato al mondo dei call center. Protagonista una Ferilli capo telefonista

Virzì: "Ecco l’inferno dei precari ma senza scadere nella lagna"

Roma - I basettoni di casa nostra dimenticano che il lavoro, da noi, ha raramente coinciso con la propria dignità e con la formazione della persona, scordando, per esempio, che un grande come Carlo Emilio Gadda visse a Roma in povertà, lui, l’autore del Pasticciaccio, l’erede del Manzoni, rassegnato a occuparsi di combustioni, data la laurea in ingegneria. Ma adorava scrivere e ha scritto pagine passate alla storia della letteratura novecentesca. Sicché non meraviglia che all’apparire, sulla mesta scena italiana, della brillante commedia sociale di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti (dal 28 nelle sale) la muta dei gazzettieri rincorra (invano) un endorsement politico, con schieramento denunciatorio sui mali d’Italia (tra i quali, il GF televisivo, va da sé). Dal manifesto di tale vicenda ferocemente contemporanea sulla gioventù disoccupata e/o occupata a termine, che rimanda alla tela di Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, si capisce l’intento ironico del film, forte di un cast con Sabrina Ferilli (la capo telefonista), Isabella Ragonese (la telefonista-filosofa Marta), Massimo Ghini (il capo d’azienda), Valerio Mastandrea (il sindacalista patetico), Elio Germano (il venditore Lucio) e Micaela Ramazzotti (la telefonista-madre nubile). Come dire: il meglio del cinema che c’è, avvolto nel velluto vocale di Laura Morante, l’io narrativo, fisso nei lavori di Virzì. Il quale, definendosi «un plebeo livornese», restituisce «un’allegra riscossa compassionevole, dentro un viaggio all’inferno della sottoccupazione, nell’Italia di oggi». Perché la coralità di tale commedia monicelliana, ulcerante tanto basta a far sorridere di empatia, non di livore sociale (vedi I compagni) ruota «intorno al tema della vita, più che del lavoro», osserva il regista, refrattario ai trappoloni dell’impegno, piombo fuso sul riso amaro. Vediamo come Virzì mette le ali alla tragedia del precariato.

Il mondo deve sapere La «callerina» Michela Murgia, autrice de Il mondo deve sapere, blog e poi libro-denuncia di quel che avviene nei call-center ispira il film. Dalla canzoncina motivazionale, cantata dalle ragazze prima del telemarketing, al minutaggio-pipì (conta del tempo al WC, già in uso in Fiat negli anni Cinquanta); dai riti punitivi di gruppo (correre nudi, farsi scrivere “sfigato” in fronte) al pressing del team leader (impagabile la Ferilli, quando dice: “Siete gnente”), è tutto vero.

Platone, Heidegger e Hannah Arendt Se Marta («il mio personaggio usa cultura e gentilezza, valori fuori dal mondo», dice la Ragonese) è laureata cum laude in Filosofia, ha sul PC le foto della sociologa ebrea nota per La banalità del male, Hannah Arendt; risponde al GF con Platone, trovando affinità tra il reality e l’heideggeriano Sein und Zeit, non se la tira da intellettuale. E fa la baby sitter e da centralinista. «Alla fine, pubblica sull’Oxford Journal of Philosophy: il suo travaglio, porta a un futuro. Nel sequel, Marta andrà ai convegni di Francoforte: ha fatto bene a studiare», dice Virzì. «Conosco laureati scemi e centralinisti intelligenti: accendiamo la lampadina del ragionamento», fa eco Sabrina.

Ferilli fetish «Diciamo buongiorno a queste nuove splendide giornate!», incita la capo telefonista, una Ferilli in gran forma. Tailleur nero, strizzato in vita da cinte e cinturini in copale lucido nero, risvolti manica panterati e tacco dodici, Sabrina ha un pendente a stiletto nell’incavo del seno. Ma ammazzerà il suo amante (il boss Ghini), spaccandogli la testa con la targa in plexiglas dell’azienda-lager «Multiple».

Tanga, tatuaggi e lacci al collo I nuovi schiavi del call-center hanno tatuaggi sul sedere e sul braccio.

I maschi indossano camicie a quadri, come le tabelle di vendita. Le femmine portano tanga a vista, a dichiarare pronta disponibilità. Tutti sfoggiano laccetti al collo: con conchiglia o dollaro, i simboli d’una barbarie urbana, rotta a tutto.

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