Fabrizio Ravoni
da Roma
Dal primo gennaio prossimo, chi vorrà continuare a pagare una tassa del 12,5% sulle rendite finanziarie dovrà denunciare il proprio investimento in titoli pubblici od in azioni nella dichiarazione dei redditi. Ma ad una condizione: il patrimonio in questione non deve eccedere i 25 mila euro. Chi lo supera dovrà comunque pagare un’aliquota del 20% sui guadagni ottenuti dall’intero stock di azioni o titoli pubblici detenuti. Non a caso, Francesco Rutelli dice di essere contrario a «mettere imposte con aliquote differenziate sui Bot».
È questo l’orientamento sul quale si sono concentrati gli studi degli esperti del ministero dell’Economia; e - seppure indirettamente - sarà questa la conclusione a cui arriverà la commissione di esperti costituita ad hoc dal ministero. La commissione, che tornerà a riunirsi i primi giorni di settembre (forse il 6), non indicherà un’unica soluzione; ma elaborerà una serie di analisi e di consigli al ministro. È quindi assai probabile che il governo Prodi sia destinato ad infrangere il tabù del «Bot nel 740».
Prima di arrivare a questa conclusione (sulla quale si stanno orientando, pur fra mille cautele, gli uomini del ministero) sono state perlustrate altre ipotesi; tutte, però, poi giudicate impraticabili.
Quella realmente alternativa all’introduzione dei «Bot nel 740» prevedeva un diretto coinvolgimento delle banche. Avrebbero dovuto estendere il proprio raggio di azione di sostituti d’imposta al nuovo meccanismo fiscale. E fin qui, nessun problema: la forte integrazione informatica fra le banche dati del sistema bancario e l’anagrafe tributaria (voluta con la legge finanziaria del 2005), avrebbe permesso quest’aumento dei compiti. Le complicazioni sono arrivate quando dal governo è partito l’input che, per difendere i piccoli patrimoni (quantificati nel tetto di 25mila euro), le banche avrebbero dovuto controllare tutti i conti correnti eccedenti tale importo; verificare quali erano i risparmiatori che investivano in titoli pubblici od azioni; quantificare le plusvalenze ed agire come sostituti d’imposta.
Gli esperti del ministero sapevano che il sistema bancario non era nelle condizioni di reggere a queste nuove incombenze. E così è stato. Da fine luglio a oggi sono stati numerosi i contatti fra il mondo bancario e il governo per risolvere il problema. La risposta ricevuta dagli uomini del ministero dell’Economia è stata sempre la stessa: si tratta di soluzioni materialmente impraticabili.
Così, il governo ha dovuto ripiegare sull’altra soluzione, decisamente meno popolare: far denunciare ai risparmiatori i rispettivi patrimoni nella dichiarazione dei redditi. L’obbiettivo del ministero è subdolo. Introducendo il tetto di 25mila euro di patrimonio di esenzione dall’aumento del 50% della tassazione sulle rendite (il passaggio dal 12,5 al 20% fa un aumento del 50%), è convinto che saranno pochi i risparmiatori che utilizzeranno la franchigia. Ne consegue che la stragrande maggioranza pagherà l’aliquota del 20%; indipendentemente abbia più o meno di 25 mila euro investiti. E questo per conservare l’anonimato fiscale.
Dal nuovo regime fiscale sulle rendite aumenteranno le incombenze fiscali. Soprattutto per i risparmiatori più anziani. Costoro, se hanno investimenti in titoli pubblici ed azioni inferiori ai 25mila euro, dovranno andare dal commercialista per compilare Unico. Ma le difficoltà non saranno solo per loro. Al ministero dell’Economia stanno cercando di perfezionare un sistema in grado di non penalizzare i risparmiatori qualificati (il cui reddito da attività finanziarie entra nella base imponibile e contribuisce alla determinazione della no tax area) dai non qualificati.
Viste le difficoltà, al ministero dell’Economia iniziano a pensare a una riduzione del gettito previsto. Stime preliminari parlavano di 3 miliardi di euro, ora destinati a scendere.
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