Vita, arte, tormenti e amori di Eleonora dalle belle mani

Dalla prosa dei suoi biografi, Eleonora Duse (1858-1924) non è mai apparsa come il personaggio complesso e contraddittorio che fu in realtà dal momento che tutti loro indistintamente si sono rifiutati a qualsiasi indagine sull’originalità dell’interprete tutt’uno al puntiglioso resoconto di un’esistenza tra le più travagliate del suo tempo. Sia cultori del passato come Rheinhardt o la Signorelli sia scrittori contemporanei come il musicologo William Weaver hanno infatti messo tra parentesi la ricchezza di quell’universo emotivo che le consentì di esprimersi in toni, gesti ed accenti che mai si erano visti e sentiti in teatro concentrandosi invece sul gossip banale, sull’eccentricità dei suoi amori. Tanto che fino a ieri solo Mirella Schino, che alla Duse interprete ha dedicato un saggio famoso, ha acutamente analizzato il suo inconsueto approccio al carattere da incarnare. Che, a detta di Charlie Chaplin che l’applaudì a New York durante l’ultima tournée americana, consisteva essenzialmente in una sorta di ieratica immobilità. «Radicarsi al suolo come una statua era infatti il solo mezzo a disposizione - confidò agli amici - che consentiva a quella mirabile attrice di farsi conoscere dallo spettatore prima ancora di pronunciare una parola». Solo sullo schermo purissimo del suo volto, che volutamente rifuggiva dal cerone, il pubblico avrebbe letto, approvato o respinto la sua eroina di quella sera.
Un’intuizione che Helen Sheehy, autrice di questa nuova bellissima biografia che è, prima di tutto un grande romanzo (Eleonora Duse, Mondadori, pagg. 372, euro 18,50) condivide ed esalta riga per riga. Trascorrendo dai timori e tremori di Eleonora, all’idea che alla sua unica figlia, per via della professione materna, venga inibito di accedere ad una società borghese che, pur adulandole, confinava le attrici nel demi monde delle cortigiane, fino all’analisi impietosa degli amori della diva. Una creatura solitaria e infelice che, approdata al teatro in quanto erede di una dinastia di comici erranti che la obbligarono ad imparare a leggere sul copione dei Miserabili comminandole di entrare in scena nel ruolo di Cosetta bambina pena il drastico castigo del bastone, detestò la scena dai quattro ai quattordici anni. Quando, per un caso fortuito dovuto a una malattia della madre, dovette impersonare Giulietta all’Arena di Verona e, per vincere il terrore di quella prova, acquistate delle rose bianche ne cosparse il capo di Romeo.
Ma è nelle pagine dedicate dall’autrice alla Napoli fine Ottocento che il libro prende il volo. «L’amante appassionata dalle belle mani», come la definì D’Annunzio all’epoca della loro tormentata relazione, nasce infatti dal calvario di Napoli. Dove se una coppia raffinata e snob come quella formata da Matilde Serao e dal suo aitante consorte Edoardo Scarfoglio le apre le porte dell’intellighenzia, Martino Cafiero, il potentissimo direttore del Corriere del mattino, la considera nient’altro che un capriccio passeggero lasciandola inerme con un figlio tra le braccia destinato a fine precoce negli stenti. Eternamente sconfitta nei suoi abbandoni sentimentali da colleghi che deridono la sua smodata voglia di leggere, di capire, di impadronirsi del mondo circostante attraverso i versi di Shakespeare e di Sofocle, Eleonora ricorre a un uomo schivo e difficile come Arrigo Boito. Uno scapolo incallito che detesta i legami e, per tutti gli anni in cui si protrarrà la loro disperata relazione, non vorrà mai separarsi da un’elegante aristocratica. Un compagno che, solo in seguito a reiterate suppliche, le consegnerà il sospirato adattamento di Antonio e Cleopatra, non rappresenta certo un felice approdo per un’artista torturata dai debiti, continuamente in lotta con gli impresari, sfinita dalle sfibranti tournée all’estero oltre che da una salute malferma. Ma questo è nulla paragonato al rapporto col Vate di Pescara. Che la seduce con la sua appassionata eloquenza prospettandole la possibilità di rifondare sulle rive del lago di Albano il teatro di poesia della nuova Italia che, in mancanza di capitali propri da investire nella colossale operazione, la Duse dovrà raggranellare come una formichina spingendosi da Mosca ad Alessandria d’Egitto.
Ce n’è abbastanza per piegare ben altra tempra che la sua, ma la Duse non deflette. Fino ad ammalarsi seriamente e, in cambio di così appassionata dedizione, essere brutalmente sostituita dal Vate quando va in scena La figlia di Jorio. Ed è qui che il volume della Sheehy muta da cronaca del passato in storia esemplare di un’anima.

Con una Duse che si rifugia nel silenzio, abbandona il teatro, legge Bergson e Sant’Agostino e, prima di apparire e scomparire dai fotogrammi d’ombra e di luce di Cenere, il suo unico film, esala dal suo ultimo palcoscenico di Pittsburgh, un’implorazione che sa di commiato e insieme di redenzione. Due sole parole, «Così sia», titolo del testo con cui si congeda dal mondo.

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