La vita tra droga e playstation dei tre «mohicani» di Varese

Una villa elegante quella dell’assassino, nella zona nobile, medievale, della città, quartiere Bizzozero. Due piani, altrettanti garage, il prato con l’erbetta all’inglese, i rododendri. Oggi è la villa dell’orrore. La mamma di Jacopo Merani, da donna separata, sola, ci ha vissuto fino a ieri tentando di salvare almeno le apparenze. Fuori tutto bello, in ordine. Dentro decisamente meno. Dall’altra parte di Varese, non lontano dalla questura, la casa dove Dean Catic, la vittima dei suoi due compari di spinello, spendeva le giornate tra viaggi in Internet e battaglie alla Playstation. È un condominio di color azzurrino, senza pretese, la casa al primo piano. Il padre Hikmet e la madre Ana adesso se ne stanno rintanati, prigionieri della disperazione.
Per tre giorni hanno cercato il loro figlio scomparso chiamandolo al cellulare. Prima almeno squillava, poi dalla mattina di martedì ha smesso di farlo. L’ultimo sms Dean lo aveva mandato alla sua fidanzatina, Vanessa, 15 anni, l’età in cui si è smesso di giocare con le Barbie per provare a incontrare il proprio Ken. Ha pianto lei davanti ai poliziotti che la interrogavano, ha raccontato con l’ingenuità di una bimba tutto ciò che sapeva. Cioè poco, nulla almeno che potesse, possa, giustificare tanta ferocia belluina.
«Non meritava di fare questa fine. Lunedì sera è uscito dicendoci che andava al bar dagli amici. Non l’abbiamo più visto». A parlare è Denis, il fratello più grande della vittima. Entra e esce da casa. Senza meta, le gambe che si muovono scosse dai nervi, gli occhi gonfi, orecchino e tatuaggio sul collo che non riescono a farlo sembrare cattivo. È croato ma nessuno potrebbe accorgersene. Parla perfettamente la nostra lingua. Accanto, una ragazza minuta, anche lei gli occhi arrossati dalle lacrime. La fidanzata. Tace e lo segue come un’ombra. «Mio fratello lavorava e studiava. Nostro padre fa il piastrellista, Dean lavorava con noi, la sera studiava per conseguire la licenza media. Quando era piccolo non gli piaceva la scuola, aveva smesso in terza media, ma ora aveva deciso di mettersi a studiare e finirla. Andrea? - dice di uno dei due assassini - Era il suo migliore amico». E poi se ne va. Tocca a un amico di famiglia allontanare i giornalisti. Anche lui slavo. «Per piacere lasciateci tranquilli, non è il momento delle domande».
Eppure ce ne sarebbero tante. Dean e i compari, trasformatisi nei suoi carnefici, non vivevano certo da bravi ragazzi. Avevano tutti piccoli precedenti, segnalazioni per droga, danneggiamenti. Eppure erano liberi di vagabondare, di tirar notte a dispetto dei genitori, di passare giornate tra bar, spinelli e tv.

Tutti senza meta, senza lavoro, senza futuro. Con le loro teste rasate da mohicani, gli sguardi da duri e tanto vuoto dipinto in faccia. Lo stesso vuoto mostrato nel raccontare il delitto alla polizia. «Senza traccia di pentimento», dicono gli inquirenti.

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