Vittoria o Vittorio? La banca promuove il dirigente trans

Vittoria infila una mano nella borsetta, tira fuori un’agenda del gruppo bancario Ubi e comincia a giocare con la penna. Si sistema sulla sedia, rimette a posto la spallina dell’abito blu. «Sono un po’ vanitosa, vero?». La doppia vita della dottoressa Casamassima, alias Federico, 50 anni, originaria di Udine, assistente al vicedirettore generale in una filiale della Banca Regionale Europea, comincia quarantacinque anni fa. E finisce nel 2005 con l’ultimo intervento chirurgico per cambiare sesso. «Ho vissuto trent’anni da uomo, è stata una disgrazia. Ma ora sono felice». Di essere donna, perché questa è la cosa più importante. E di essere riuscita a tenersi stretta il suo posto di lavoro senza aver fatto la fine di tanti altri come lei, che pur di non subire discriminazioni e umiliazioni, hanno mollato tutto e sono finiti sulla strada per sopravvivere. A sentirla, la storia di Vittoria invece è proprio il contrario, un’eccezione. Lei la sua azienda la ringrazia, eccome. Come gli amici sindacalisti della Camera del lavoro con il loro centro per assistere lavoratori gay, lesbiche e trans che le hanno dato una bella lezione di vita per stare al mondo nei suoi nuovi panni. «Pensavo di venire qui e trovare una mamma che mi consolasse. E invece mi hanno fatto rigare dritto. “Devi avere una tenuta morale limpida e inattaccabile. Se commetti un errore grave, nessuno ti aiuta”, mi hanno detto». A loro e al responsabile delle risorse umane della banca deve tutto, o quasi. La possibilità di parlare di un cambiamento così radicale, di capire quali potessero essere le difficoltà con i colleghi. Due avanzamenti di grado e un riconoscimento economico, oltre a un viaggio premio a New York e a Boston. «Anche un aiutino, un piccolo credito insomma per sostenere le spese degli interventi». Cinquantamila euro non sono mica spiccioli.
Vittoria si ricorda la sua prima riunione tornata dal Brasile dove aveva fatto i primi ritocchi al viso e al seno, ancora con gli abiti maschili così come le avevano consigliato i dirigenti. «Non avevo anticipato nulla sul lavoro. Non c’erano sospetti: pensavano che fossi un Don Giovanni. Poi un giorno dissi alla segretaria: “Vado in Brasile, o mi sposo o torno donna”. Al ritorno mi chiese come mi doveva chiamare». A pensarci bene, anche oggi che sono passati cinque anni dall’ultima operazione, Vittoria non sa di preciso come definirsi. «Se trans o altro. Mi sono sempre sentita donna. Ecco, forse donna genetica è l’espressione più appropriata. Comunque mi sento fortunata». Ma è possibile che sia andato tutto così liscio? «Le difficoltà maggiori sono state con i colleghi - risponde Pierluigi Marabelli, il responsabile risorse umane della banca -. Ma non nella collocazione aziendale. I vertici si aspettano che lei abbia un buon rendimento e sia utile. Così è sempre stato e così continua a essere, a quel punto che problema c’è?». Sì, forse giusto il bagno all’inizio, ricorda Marabelli, proprio come era successo in Parlamento con Luxuria. «Ho sempre pensato che si trattasse innanzitutto di una persona, con una propria dignità e il diritto a essere rispettata», conclude Marabelli. Vittoria ha scritto anche un libro sulla sua storia, le piacerebbe essere un esempio positivo per tanti altri che vogliono intraprendere lo stesso percorso.

«È stato più difficile dirlo in famiglia che al lavoro, ma preferisco non parlarne». Sorride, si sistema di nuovo i capelli. «La cosa più bella che questa esperienza mi ha insegnato? A riconoscere le persone buone attraverso gli occhi».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica