Vittorio Imbriani vedi Roma e poi muori

Del napoletano Vittorio Imbriani (1840-1886) si ricominciò a parlare dopo che nel 1968 Gianfranco Contini sottrasse il romanzo Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876) a un generico àmbito «post-unitario» per collocarlo fra i campioni di una vena espressionistica - quella che conduce a Gadda - i cui portatori di spicco sarebbero Carlo Dossi e Giovanni Faldella. In confronto ai quali, è probabile che il quoziente «espressionistico» di Imbriani risulti meno vistoso; ma la verve polemica, la caduta delle barriere della buona creanza e delle ipocrisie su cui si regola il civil consorzio, valgono ad accreditare l’uomo e lo scrittore di una originalità che non conosce pigrizia.
Volontario nella guerra del ’59, e già prima allievo e fiduciario, nell’esilio zurighese, di De Sanctis, Imbriani tralignò dal solco degli ideali positivi del maestro per coltivare e maturare la pianticella del suo malumore. Si pensi al libello Fame usurpate (1877), dove non solo fustigava il poeta veronese Aleardo Aleardi, ma stroncava addirittura il Faust goethiano con asserti di una violenza inopinata e restia a qualsiasi transazione con l’oggetto del proprio sdegno.
Editi dalla Fondazione Imbriani e da Marsilio, nel piano degli Opera Omnia del Nostro escono ora i Carteggi inediti (a cura di Monica Mola e con una premessa di Raffaele Giglio, pagg. CXVII-420, euro 45): sono quasi tutte missive indirizzate all’Imbriani, ma giovano a farci intuire il carattere del destinatario. Giornalista, cronicamente disturbato da un’insicurezza ch’era insieme la sua forza, annotò per servizio nelle Passeggiate romane (1871) e più tardi (1876) in un Diario romano (1876) le sue impressioni sulla Capitale del Regno, scrutata e scrutinata nelle glorie antiche e nei recenti misfatti. Al gremito repertorio di quanti si pronunciano sull’Urbe trasformata e sul non agevole equilibrio etico e architettonico da costruire fra la Città dei Cesari, dei Papi e quella che presto si chiamerà «umbertina», Imbriani apporta un contributo da «irregolare».
Ce ne chiarisce modi e coordinate Giuseppe Iannaccone, curatore di una ristampa delle Passeggiate romane (inclusiva del citato Diario, ed. Salerno, pagg. 141, euro 11). Nel ’71 e ancor più nel ’76, giunti al potere Depretis e l’odiata Sinistra, gli sfoghi di costume si uniscono al clamoroso rigetto di criterî comunemente accolti, specie quelli estetici. Schernisce il complesso di Piazza del Popolo e il Valadier, suo principale artefice; confuta il Mosè di Michelangelo. Ma anche se consente al fascino di un sito celebre (nella Basilica di San Pietro, che contrappone alle indifendibili Santa Maria Maggiore e San Giovanni in Laterano!), emergono poi troppi particolari da censurare, sicché l’occasione stinge nel solito indispettito malumore.
Uscendo da una visita della Specola, Imbriani si dice annoiato, poiché il suo unico affetto non va agli astri bensì alla «terra» e sulla terra solamente all’«uomo». Può suonare strano, in bocca a un antidemocratico, che si professerà a favore della pena di morte e, sebbene laico, sarà indulgente con Pio IX quanto, invece, crudele verso i congiurati Monti e Tognetti (per tacere degli offensivi giudizî su personaggi emblematici della storia patria, a cominciare da Mazzini). Ma tale era Vittorio Imbriani: prendere o lasciare.

Bisogna assaporarlo, anche in queste pagine, come un’intelligenza non disponibile ai compromessi; e capire, a esempio, che nel dirsi insospettito della «lode universale», perché «quando qualcosa piace alle anime del volgo, deve avere del volgare», non enuncia una banalità snobistica ma sintetizza una riflessione ben ponderata.

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