(...) Malacalza ama Genova più di tanti genovesi. E qui mi ci metto anchio: non sono nato a Genova, ma certo sento di amare questa città bellissima e straniante, coinvolgente e assoluta, dolcissima e amara, più di moltissimi genovesi che non si rendono conto di quello che hanno davanti agli occhi.
Ecco, Malacalza forse è più genovese perchè è nato appena al di là della linea di confine della statale 45 della Valtrebbia, dopo Gorreto, dopo Ottone, a Bobbio. Provincia di Piacenza, certo. Profumo di Liguria, certo. Ed è bello raccontarlo partendo proprio da un giornalista che è un po il punto di contatto fra queste due tradizioni come Gaetano Rizzuto, ex direttore del Secolo XIX e poi di Libertà a Piacenza, che ha raccolto alcune confidenze di Malacalza. Da qualche episodio, da qualche aneddoto, si può giudicare tutto il resto.
Vittorio nasce bene. Suo papà Paolo era titolare di unimpresa stradale con 150 operai, che mandava avanti con il fratello. Ma, allimprovviso, nel giro di sei mesi, il ventenne Vittorio si trovò senza papà e zio. Decidendo di ripartire da zero: di mettersi alla guida della sua 500 con la leva del cambio che rischiava eternamente di restargli in mano e di scendere a Genova per cercare fortuna. Senza peraltro mai dimenticare Bobbio, dove torna appena può. Sua moglie Carmelina, fra laltro, è cugina dei fratelli Bellocchio: Piergiorgio e Marco, il regista autore del film-capolavoro dellanno, quel Vincere con Filippo Timi e Vittoria Mezzogiorno sul privato di Benito Mussolini.
La vita di Malacalza sembra un romanzo. Ma non un romanzo minimalista, non una roba alla David Leavitt. Il romanzo dellingegnere è uno storione di quelli ottocenteschi, epica pura. A partire dalla vita avventurosa a Genova: commerciante, manager, esperto autostradale, uomo Ansaldo, fornitore dellItalsider. Sempre con un motto che ripete ossessivamente anche ai suoi figli: «Bisogna conoscere i propri limiti prima delle nostre potenzialità. Nel momento in cui conosci i tuoi limiti, diventi forte». E questo è il segreto da cui è partita la scalata allacciaio, al biomedicale, allAnsaldo superconduttori, fiore allocchiello del gruppo dal punto di vista delle tecnologie, alla Tectubi che ha salvato a Piacenza, alla componentistica per lenergia...
I racconti di Malacalza sono storie di chi ha lessere imprenditore nel Dna, che sente lodore della fabbrica come un profumo. E questo traspare da ogni parola, da ogni gesto, da ogni particolare: «Io volevo lavorare in proprio. Credo che industriale si nasca, è difficile diventarlo. Uno può diventare un buon manager, ma non certo un imprenditore» E via con il 1961, con la ripartenza da Genova: «Incontro il titolare di una grossa società commerciale che mi vuole come suo direttore. Continuo ad alzare il prezzo della mia assunzione perchè lui mi lasci in pace. Arrivo a spuntare 550mila lire al mese, più lauto. Allepoca era uno stipendio enorme. Un manager importante poteva guadagnare 200-250mila lire al mese, un operaio ne prendeva 40mila. Ho resistito nove mesi, ne sono venuto via per tornare a lavorare nel commercio in proprio. Guadagnavo forse 200mila lire al mese, quando le incassavo».
E già qui dovrebbe bastare. Ma il meglio arriva ora: «Due anni dopo incontro un alto funzionario dellAnas che aveva conosciuto mio padre. Cè una grossa opportunità - mi dice - le Autostrade. Ma io rispondo che non volevo più saperne di appalti. Alla fine cedo diventando impresa di fiducia delle Autostrade. Smetto nel 1972, perchè iniziava Tangentopoli. Autostrade era unimpresa efficientissima, pulita, si lavorava benissimo. Poi, è subentrata la politica. In occasione di un appalto, mi dissero: Quello lo prendi tu, ma devi pagare il 12 per cento. Gli risposi: Vi saluto, non faccio più niente, perchè non accetto il principio. E qui inizia la mia fortuna».
Lennesima ripartenza da zero di Malacalza, che proprio dal saper ripartire sempre da zero ha costruito la sua storia. E da quello che a noi comuni mortali sembrerebbe un passo indietro ha sempre fatto un altro passo avanti. Questioni di punti di vista. Questione di saper essere imprenditore oppure no. E Malacalza dellimprenditore sembra la definizione vivente. Come un personaggio da dizionario dei sinonimi.
Poi, cè il rapporto con Genova. Che ama, indubitabilmente ama. Basti pensare a quando Rizzuto, su Libertà, gli ha chiesto un parere sulla possibilità di fare impresa a Genova o a Piacenza, le due città su cui gravita Bobbio: «È mille volte più facile fare impresa a Genova, dove cè una grande professionalità delle Partecipazioni Statali che hanno fatto scuola».
Eppure, Genova. «A Genova non ci sono imprenditori. Cè unenormità di aziende che vivono su una rendita di posizione, portando avanti e gestendo solo quello che si sono trovati. Se io ho avuto un discreto successo nella vita, è dipeso dalla disgrazia di aver perso a ventanni il padre e lo zio. Diversamente, avrei fatto il costruttore di strade. Avrei gestito quello che mio padre mi lasciava. Invece, ho dovuto lottare, avendo nel Dna limprenditoria e cambiando continuamente lavoro. Passando dallOld al New. Io non so usare un computer, ma uno dei primi computer lho preso per la mia azienda. Oggi io non uso il computer, ma le mie aziende sono informatizzate al massimo».
Ultimo passaggio, decisivo. Quando Malacalza parla del modo di affrontare le proposte che gli vengono sottoposte: «Ci vuole sempre un progetto industriale serio, intelligente, innovativo, che stia in piedi. Io non credo alle favole, pensando che con i soldi si fa tutto. Mi creda, i soldi sono lultima cosa. Sono le idee e i progetti che mancano».
Per me, che amo il profumo dellimpresa e la capacità ci chi sa farla, questo è nettare e ambrosia.
Ecco, quando si parla con uno così si respira cultura di impresa. Si vola alto rispetto a tanto piccolo cabotaggio. Si mangia pane e voglia di progetti innovativi.
E, se questo è il menù, forse valeva la pena di aspettare tanto per il pranzo.
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