Vizi e virtù: siamo sempre tutti romani

Habent sua fata libelli, ovvero i libri hanno un loro destino, come dicevano i Romani. Alcuni anni fa, quando il mio libro Roma: la prima morte di Marco Aurelio venne pubblicato in Germania, alcuni lettori mi accusarono di essere diventato un voltagabbana e un traditore: «Hai abbandonato Cartagine per Roma!» Mi piacciono molto le affermazioni di questo genere perché, a parte il fatto che rivelano che qualcuno ha letto il mio libro, ci dicono che le persone possono ancora appassionarsi per fatti accaduti in un lontano passato. Infatti, il passato non è mai «passato». Il passato è tutto intorno a noi e continua a influenzarci.
Un diplomatico che aveva fatto un viaggio in Sicilia mi raccontò di un avvertimento che aveva ricevuto da alcuni uomini d’affari a Marsala (l’antica Lilibeo, roccaforte cartaginese). Quando seppero che la tappa successiva sarebbe stata Siracusa, gli dissero: «Stia attento, sono gente poco affidabile, tempo fa sono passati ai romani». Questo «tempo fa... » risaliva all’anno 264 a. C., ovvero a circa 2.270 anni prima. Quando chiesi se gli escrementi dei piccioni causassero dei danni al tetto della biblioteca dell’università di Salamanca, il guardiano mi disse «non recentemente, il tetto è nuovo» (è stato costruito nel 1509). Quando il New College di Oxford dovette essere restaurato, gli architetti si sentirono del tutto impotenti, perché il tetto della Great Hall (l’aula magna) era sostenuto da quattro immensi pilastri, ognuno costituito da un enorme tronco di quercia, ed era impossibile trovare in qualsiasi parte d’Europa delle querce di tali dimensioni. Il giardiniere del College si dimostrò tuttavia capace di risolvere il problema: sapeva che nel 1379 i fondatori del College, in previsione di eventuali futuri lavori di riparazione, avevano provveduto a piantare delle querce in qualche luogo sperduto e dimenticato dell’Inghilterra. Gli architetti riuscirono a localizzarlo e vi si recarono, scoprendo centinaia di alberi giganteschi. Fu così possibile sostituire i vecchi pilastri e il College decise di piantare altri alberi in previsione dei prossimi lavori di restauro del 2700.
Negli anni scorsi è stata costruita una nuova linea della metropolitana di Colonia. Alcune settimane fa, l’edificio che ospitava l’Archivio della città di Colonia è crollato, causando la morte di due persone e seppellendo sotto le macerie dei documenti che risalgono al X secolo. Può darsi che questo incidente sia dovuto ad un errore, alla mancanza di sufficienti misure di sicurezza o ad altro. Ma l’errore più grande è stato proprio lo scavo in se stesso. La gente diceva: le fondamenta sono insicure e vacillano per due motivi: alla fine della Seconda guerra mondiale, quando Colonia era completamente distrutta, i crateri provocati dalle bombe furono semplicemente riempiti con le macerie e su queste vennero costruiti dei nuovi edifici, ma sotto a tutto ciò esistono catacombe, condotte idriche, sotterranei, cioè le vestigia di Colonia Claudia Ara Agrippinensium, che nell’antichità era la più grande città romana a nord delle Alpi. Non certo il posto più adatto per scavare delle gallerie.
La storia rappresenta le fondamenta dell’edificio in cui tutti noi viviamo. Possiamo non conoscerla, o ignorarla deliberatamente, ma la storia c’è, esiste. E per un narratore, la storia è una cantina in cui si cela un tesoro inesauribile, pieno di storie e racconti meravigliosi, di personaggi affascinanti, di fatti che ci sembrano distanti nel tempo e vicini allo stesso tempo, perché dopo tutto sono fatti della stessa materia di cui siamo fatti noi (e i nostri sogni): fame, lussuria, passione, crudeltà, amore, tenerezza, potere e denaro. Quando mi interrogo sul perché ho scelto proprio l’antichità invece che, ad esempio, il mondo affascinante e complesso del medioevo, trovo diverse ragioni per spiegarlo. Una di queste è che tutto ha inizio proprio da lì: la politica e la poesia, l’arte e la filosofia, il lusso e la miseria, il peggio e il meglio, i nostri archetipi e gran parte delle nostre metafore. Per molti anni Parigi è stata chiamata l’Atene sulla Senna, Washington è stata soprannominata la Nuova Roma, ogni città sotto assedio è diventata Troia, e in un certo senso, ogni vagabondo è diventato un Ulisse e ogni imperatore un Kaiser, cioè Caesar. Dopo la caduta dell’impero romano ci sono voluti quasi 1.500 anni perché si potesse di nuovo tornare alla qualità delle strade, degli acquedotti e della distribuzione alimentare di cui l’Europa occidentale godeva nel 400 d. C.
Ma i Romani non furono soltanto dei fantastici costruttori e amministratori. Ci hanno dato, è vero, acquedotti, Orazio, Virgilio e Catullo, ma sono stati anche dei grandi maestri di distruzione e genocidio. Basti pensare al 146 a. C., anno in cui, nel giro di pochi mesi, rasero al suolo e bruciarono Cartagine e Corinto, uccidendo quasi un milione di persone. Anche lo splendore di ciò che Roma rappresentava aveva i suoi lati oscuri, molto oscuri.
Tuttavia i romani non uccisero mai nel nome di un dio, e forse è questo l’aspetto che mi attrae maggiormente. Il mondo antico non era di certo un paradiso, ma prima dell’«esplosione» del monoteismo, era un mondo aperto, affamato di conoscenza e gloriosamente «umano». E, tra l’altro, ho un motivo in più per sentirmi «antico». La città in cui vivo, Bonn, venne fondata 2.

020 anni fa come vicus (villaggio) romano, e poi divenne castra (una serie di fortificazioni) che ospitava fino a tre legioni. Questo accadeva un po’ di tempo fa, ma in termini storici, molto di recente. È per questo che civis romanus sum (sono un cittadino romano).
*Autore de “Il centurione di Cesare”

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