Un italiano a Hollywood, quando Hollywood era quella dei divi e non dei turisti, quando era una manciata di cinema e Studios fra il Boulevard e Vine Street e non una città-quartiere dentro una megalopoli. Quando i sogni si fabbricavano, non si producevano in serie.
Litaliano è Tito A. Spagnol - nato sui titoli di coda dellOttocento a Vittorio Veneto, dove morirà nel 1979 - scrittore e giornalista così ossessionato dal cinema da decidere a un certo punto di piantare tutto per cercare fortuna tra pellicole e copioni a Movieland, «nel paese delle ombre e delle finzioni»: Hollywood, come hanno scolpito a lettere gigantesche sulla collina di Los Angeles appena qualche anno prima. Spagnol, in «questo paese dove si fabbrica lo spasso serale di mezza umanità», ci rimane dallautunno del 1929 alla fine del 30, il tempo di provare sulla pelle la vita di stenti e illusioni di chi vuole sfondare nella Mecca del cinema ma anche di conoscere personalità come David W. Griffith, Cecil B. DeMille, il regista di Addio alle armi Franz Borzage e Frank Capra, che lo scrittura come aiuto regista per Dirigible, aprendogli i cancelli della Columbia e portandolo nel cuore del sistema... E il sistema, quando ancora non era star system, Tito Spagnol lo racconta in modo straordinario nei suoi reportages dagli States (ora pubblicati da Aragno col titolo Hollywood Boulevard), lunghe corrispondenze che scrive per i giornali italiani in alberghetti e camere in affitto nelle varie zone di Los Angeles, la cui comodità è sempre proporzionata ai soldi racimolati...
Personaggio eccentrico, giramondo, giornalista (per Paris-Presse e Omnibus di Longanesi, ma anche per il Corriere della sera o Il Mondo di Pannunzio) e giallista di successo negli anni Trenta, Tito Spagnol racconta ai lettori italiani la Hollywood degli anni doro: spettegola sui divi come Howard Hughes, Rodolfo Valentino, Greta Garbo e Charlie Chaplin; spiega come nascono i film, tra unorganizzazione della produzione perfetta e una dedizione al lavoro totale; svela i segreti della sceneggiatura («Ho posto questa questione a una quantità di persone e le risposte possono essere condensate in queste tre parole: Situation, Suspense and Climax»); percorre i luoghi del mito, dai cinema-cattedrale come il Chinese Theatre agli Studios della Fox: «ho provato spesso limpressione di trovarmi in giro per i viali di un immenso ospedale, tra i padiglioni e i recinti, nei quali un intero popolo di tranquilli maniaci viva coltivando le sue stravaganti fantasie»
Fantasie, sogni, divismo... Spagnol è cosciente del fascino fatale della «città di celluloide», ma non ne rimane vittima. Anzi, è bravissimo a smitizzare («A Hollywood si lavora sempre e si va a letto presto, e questa è una notizia che deluderà coloro che credono che laggiù ci si diverta»), ridimensionando registi («Nessuno si dava arie supreme come in Europa, nessuno soprattutto moriva davanti alle gambe o ai seni delle star») e attrici («Chi arriva a Hollywood rimane magari un tantino deluso di non imbattersi in quegli sciami di sfolgoranti e perfette bellezze femminili che ha tante volte ammirato sugli schermi»).
Un italiano a Hollywood, quando da noi stava per nascere Cinecittà. Eppure, Spagnol ne è convinto, il cinema italiano al cospetto di Hollywood rimarrà sempre qualche fotogramma indietro: a noi manca la capacità organizzativa del lavoro (pensiamo che basti il genio e limprovvisazione), non abbiamo capito limportanza della sceneggiatura sulla quale invece in America puntano tutto, e poi «agli attori nostri mancano quei requisiti fondamentali che sono la spontaneità e la naturalezza, qualità che a Hollywood sono comuni anche nelle comparse. Appena quattro occhi ci guardano, perdiamo il nostro modo di fare naturale, controlliamo i nostri gesti, le nostre attitudini: in una parola, posiamo».
Per il resto, è una questione di magia.
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