Politica

«Voglio raccontarvi l’altro Irak»

Gian Micalessin

Caro Direttore,
tu nicchi e ti preoccupi. E non hai tutti i torti. Ero io a dire e scrivere di non volere tornare in Irak. Non almeno per raccontarlo barricato dentro un albergo. Non per girarlo frettolosamente, travestito alla meno peggio e raccontando storie raffazzonate. E comunque con il rischio di perder la testa o ritrovarmi ostaggio per dei mesi. Ma questa volta è diverso. Per una settimana sarò, come vuole il codice corrente, «embedded» con i marines. Un tempo si diceva aggregato o al seguito. Lo erano in Vietnam Egisto Corradi, Oriana Fallaci, Tiziano Terzani e decine di colleghi più famosi e più bravi di me. Quel tempo seguire l’esercito americano non era una vergogna né un’onta. Ne approfittava anche chi poi lo criticava o lo condannava invocando la vittoria di vietcong e khmer rossi. Oggi in Italia certi «soloni» del giornalismo considerano l’«embedding» una sorta di giornalismo prezzolato al confine tra malafede e propaganda. Io lo considero solo un punto di vista. L’inviato ovunque sia racconta soltanto lo spicchio di realtà che gli passa davanti agli occhi. Nessuno di quegli spicchi sarà mai la verità, ma contribuirà a regalare al lettore un’immagine verosimile.
Pensa all’Irak. Da mesi gli unici racconti sono le mattanze di Bagdad, il ritrovamento di cadaveri, i filmati dei terroristi e gli appuntamenti elettorali. In compenso ignoriamo allegramente quel che succede intorno a Falluja, a Ramadi e al confine con la Siria. Da mesi in quelle zone i marines sono impegnati in scontri sanguinosi con una guerriglia sempre più controllata da Al Qaida. Se perdono o abbandonano la partita quel territorio diventerà un nuovo Afghanistan talebano. Un nuovo califfato dove pianificare attentati contro l’Occidente, addestrare nuove cellule suicide, ospitare terroristi di tutto il mondo. Eppure di quanto succede lì in Italia non sappiamo nulla. Andarci da soli significa firmare la propria condanna a morte. L’unico modo per arrivarci è seguendo l’esercito americano. Non è una passeggiata, ma ci sono ottime ragioni per farlo. Le vicende di quella provincia dimenticata sono cruciali non solo per gli americani, ma anche per noi italiani. Nei prossimi mesi il confronto tra chi ritiene importante mantenere le nostre truppe in Irak collaborando con americani e inglesi e chi consiglierà di abbandonare la partita riempirà le pagine dei giornali. Lo sai, io non sono uno spassionato sostenitore delle politiche statunitensi. A suo tempo giudicai controproducente e azzardata l’invasione dell’Irak. E non mi sbagliavo. Ritengo che Washington continui a commettere molti errori sia a livello politico che militare. Ma quello americano resta il male minore. Oggi andarsene equivarrebbe a consegnare il Paese, o una parte importante di esso, ad Al Qaida. Chi ci chiede di far le valige e abbandonare gli iracheni e i nostri alleati ha sempre molte, buone e nobilissime ragioni per giustificare le proprie scelte. Poche volte ha la responsabilità di mettere da parte l’ideologia e chiedersi quale sia la scelta migliore per difendere il nostro futuro e i nostri cittadini. Quest’operazione è ancora più facile se dalle pagine dei giornali scompaiono i resoconti di territori dove opera egemone una guerriglia guidata dalla stessa ideologia che ispira non solo le stragi di Bagdad, ma anche quelle di Madrid, Londra e Sharm el Sheik. Inneggiare al tutti a casa sarà più facile se non sarà chiaro che finché non si chiude il processo di stabilizzazione politica dell’Irak i marines americani restano l’unica forza in grado d’impedire il consolidamento di Al Qaida. Se continueremo a ignorare le tragedie di Ramadi e dintorni qualcuno potrà continuare a chiamare resistenza i terroristi e assassini di civili gli americani. E sulla base di quest’equazione convincerci a fuggire, ad abbandonare le nostre responsabilità e i nostri alleati, ma soprattutto, cosa ben più grave, ipotecare la nostra sicurezza futura. Ricordiamoci cosa successe non in un secolo lontano, ma appena nove anni fa quando i talebani bussarono alle porte di Kabul. L’intero Occidente chiuse gli occhi, abbandonò al suo destino quel Paese fino a quando, cinque anni dopo, l’Afghanistan dei talebani e di Al Qaida non ci precipitò addosso con le rovine delle Torri Gemelle. Per questo, caro Direttore, io penso che questa volta valga la pena rischiare e tornare in Irak. Questa volta non è curiosità, amore dell’avventura o sprezzo del pericolo. È solo puro e semplice dovere morale e professionale. Solo così quando qualcuno proporrà d’abbandonare al proprio destino l’Irak sapremo raccontare cosa vi sta succedendo. Solo così potremo contribuire a descrivere il vero nemico.

Solo così quando ci consiglieranno di fuggire sapremo spiegare perché non bisogna farlo.
Gian Micalessin

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