Ministro Sandro Bondi, il turismo in Italia è legato alla ricchezza di beni culturali: lei crede che la crisi di questi anni sia dovuta alla cattiva gestione del nostro patrimonio?
«Sicuramente c’è qualcosa che non va. Si dice comunemente che i beni culturali siano il nostro petrolio, ma è un petrolio che non riusciamo ad estrarre».
E la colpa di chi è?
«Ci sono certamente altre cause che spiegano il ritardo accumulato nello sviluppo del turismo culturale, come la mancanza di moderne catene alberghiere, la crisi della nostra compagnia di bandiera, i limiti delle infrastrutture, l’assenza di un progetto di comunicazione. Ma pesa anche l’incapacità di sfruttare al meglio le nostre bellezze».
Per citare casi recenti, i media stranieri parlano di Pompei come se avessimo un gioiello che non sappiamo valorizzare...
«Non possiamo dire di puntare sul turismo se lasciamo le vetrine culturali dell’Italia nelle condizioni di Pompei. Nessuno ha mai fatto niente, io non mi sono rassegnato e ho preso un provvedimento unico nella storia del nostro Paese».
Il modello del commissario può essere applicato ad altri beni culturali?
«Sì, credo che il provvedimento per Pompei possa diventare un modello. E parlo di gestioni autonome dei Beni culturali con fondazioni o consorzi, frutto della collaborazione tra il ministero, gli enti locali e i privati, che sono le più efficienti».
Altri esempi?
«Due settimane fa abbiamo siglato un accordo con le fondazioni bancarie per la Reggia di La Venaria in Piemonte. Poi un consorzio per la gestione di Villa Reale di Monza».
E nei prossimi mesi?
«Sto lavorando a un piano nazionale dei musei italiani. Voglio dimostrare che è possibile valorizzarli, destinando risorse adeguate, sia pubbliche che private. Ho deciso di bandire un concorso aperto anche agli stranieri per il posto di direttore generale per i musei italiani».
Potremmo avere un capo dei musei non italiano?
«Adesso non c’è la figura di direttore generale. Io voglio, entro la fine dell’anno, istituirla. E il bando pubblico sarà internazionale».
Quante sono le risorse?
«Venti milioni del governo per quest’anno. Con le fondazioni spero di arrivare in tutto a 40 milioni».
E sul fronte del turismo?
«Con Michela Brambilla lavoro a un piano per la valorizzazione degli itinerari turistico culturali, con particolare attenzione all’Italia minore, alle piccole città d’arte che rappresentano una ricchezza diffusa senza paragoni nel mondo. Poi io vorrei sostenere l’arte contemporanea, in modo da lasciare alle nuove generazioni testimonianze nobili e alte della nostra civiltà».
È riuscito ad evitare i temuti tagli nella manovra. Si aspettava gratitudine dal mondo del cinema?
«A parte l’eccezione di alcuni esagitati, i produttori, gli esercenti, gli attori e i registi hanno dimostrato rispetto e attenzione. Adesso il secondo obiettivo che mi pongo è quello di realizzare in Italia una agenzia nazionale per il cinema».
Un nuovo carrozzone?
«Al contrario, è un modo per semplificare visto che ingloberà tutti gli enti esistenti, sul modello francese».
È possibile evitare che siano finanziati film che non arrivano nelle sale?
«È necessario. Non intendo più accettare lo scandalo di film finanziati dallo Stato solo perché piacciono ad alcuni pseudo-intellettuali di sinistra innamorati delle loro idee e soprattutto delle loro piccole botteghe. Questo scandalo deve finire».
Magari i sussidi potrebbero scomparire...
«Non è uno strumento tutto negativo. Due film come Il Divo o Gomorra hanno ricevuto un contributo e il pubblico li ha premiati».
Ci sono categorie che sono per definizione di sinistra e lei ha forse a che fare con le più agguerrite. Non le viene la tentazione di scardinare quel mondo?
«È un mondo complesso e io lo conosco bene».
Un tempo si parlava di egemonia culturale della sinistra. Esiste ancora?
«È più uno stereotipo che una realtà. La sinistra non ha mai esercitato una vera egemonia nella cultura italiana, anche se è vero che è riuscita ad impadronirsi dei gangli dell’organizzazione culturale nelle università, nelle case editrici, nei giornali e nelle televisioni e perfino nella magistratura».
Detta così è egemonia...
«Diciamo che è un mondo costituito da diversi gironi. Il primo è formato da funzionari, con il compito di organizzare la cultura in modo da renderla funzionale agli obiettivi politici della sinistra. Il secondo è formato da coloro che ritengono essere chic dichiararsi di sinistra. Il terzo è formato da tutti quegli intellettuali che, fino a oggi, per poter lavorare sapevano di doversi rivolgere ai funzionari».
Sono i suoi interlocutori?
«Con loro si può e si deve dialogare, perché sono alla ricerca di nuove relazioni e protagonisti. Il mio obiettivo non è quello di sostituire questo sistema con un altro di diverso segno politico. Voglio costruirne uno nuovo fondato sulla libertà e sul riconoscimento dei veri uomini di cultura».
Perché dice spesso di non essere di destra?
«Perché sono onesto intellettualmente. Non sarei onesto se dicessi di essere un campione del liberalismo».
Si sente un ex Pci?
«La mia vicenda personale è quella di un cattolico che aderisce giovanissimo al Pci di Berlinguer sull’onda delle speranze suscitate dal compromesso storico».
Poi però approda al centrodestra...
«Se non si comprende come una persona come me possa giungere ad abbracciare la causa di Berlusconi si comprende poco della storia del nostro Paese».
Nelle sue materie ritiene sia necessario dialogare con la sinistra?
«Bisogna dialogare con chi ha idee. Con Salvatore Settis, presidente del Consiglio nazionale dei Beni culturali, ad esempio, non ho opinioni perfettamente coincidenti, ma gli riconosco un impegno senza riserve, un rigore e una moralità sempre più rara».
Chi tra i tanti esponenti della cultura che ha incontrato l’ha delusa di più?
«Chi non alcun rispetto per me come persona, non tanto come ministro».
Il meno ostile?
«Non voglio comprometterlo».
Non teme che a volte la buona educazione possa nuocerle?
«No.
Cosa sarebbe successo se fosse stato meno buono con Umberto Eco?
«Ho seguito ugualmente la sua lezione, che francamente ho trovato noiosa. Non vedevo l’ora di andarmene».
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