Cultura e Spettacoli

La prima volta delle schede rosa

L’emozione della cabina: Anna Banti ebbe paura di sbagliare, a Maria Bellonci venne l’impulso di fuggire

Il 2 giugno del ’46 erano in parecchi a temere che non ci fosse una grande affluenza femminile ai seggi, e che in fondo alle donne del voto non importasse granché. Il timore risultò platealmente infondato: quasi 13 milioni di italiane si affollarono alle urne, mettendosi in fila per scegliere tra monarchia e repubblica ed eleggere l’Assemblea Costituente. In realtà, quello stesso anno, le donne avevano già votato alle elezioni amministrative di primavera, ma fu la partecipazione di massa al referendum istituzionale a dare un segnale inequivocabile: le italiane volevano sentirsi pienamente e finalmente cittadine.
Il momento doveva essere denso di emozione, se donne colte e di carattere come Anna Banti o Maria Bellonci ebbero di fronte alla scheda un attimo di smarrimento, di incertezza. La Banti ricorda la paura di sbagliare, e annota: «Solo le donne possono capirmi: e gli analfabeti». Lei, scrittrice sofisticata e selettiva, compagna del grande critico d’arte Roberto Longhi, nel porre quella crocetta ammette di sentirsi timorosa come chi non sa scrivere. E la Bellonci, che con mano sicura e piglio regale governerà per decenni, con il premio Strega, il litigioso salotto della narrativa italiana, confessa: «Mi mancò il cuore e mi venne l’impulso di fuggire». Per loro come per tutte le altre, quell’esperienza rappresentò un rito di iniziazione.
Prima del fatidico giorno c’erano state in tutti i Paesi occidentali lotte, proposte di legge, guerre giudiziarie, a cui anche le italiane, magari in modo meno acceso, avevano partecipato. Nelle Costituzioni l’esclusione delle donne dal diritto di voto non era quasi mai esplicita, piuttosto fondata sulla forza della tradizione, su un’interpretazione della legge di tipo consuetudinario. Nel mondo anglosassone tutto si giocava sull’ambiguità della parola man, uomo: doveva intendersi rigidamente come «maschio», oppure come «essere umano», includendo anche il genere femminile? I tribunali, a cui le suffragiste si rivolsero, optarono per il significato più restrittivo. Con questo precedente, non può stupire l’insistenza con cui Eleanore Roosevelt e le sue colleghe vollero che nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nel ’48, si adottasse rigorosamente il neutro human being.
Qualcosa di simile accadde anche in contesti diversi come quello francese e italiano, dove la strategia giudiziaria per il suffragio femminile ebbe esiti altrettanto fallimentari. Lo Statuto Albertino recitava: «Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinanzi alla legge». In teoria, dunque, le donne non avrebbero dovuto essere discriminate, ma i tentativi di iscriversi nelle liste elettorali locali, presentando ricorsi alla magistratura in caso di rifiuto, non ebbero successo. Nelle sentenze i giudici prospettavano foschi scenari di esautorazione del maschio e di presa del potere da parte femminile; insomma, nel caso si fossero ammesse le donne al voto, l’Italia avrebbe offerto al mondo «il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio ed utilità per il nostro paese è facile immaginarsi».
Solo l’ingresso sulla scena politica dei grandi partiti di massa, Dc e Pci, e la creazione delle organizzazioni femminili connesse (l’Unione donne italiane per le comuniste, il Centro italiano femminile per le cattoliche) aprirono lo spazio per l’allargamento del voto. E così, il 1° febbraio del ’46, «il suffragio universale fu esteso alle donne». La frase, compreso l’involontario ossimoro, è di Maria Federici, dirigente del Cif: naturalmente, se il suffragio fosse stato davvero universale, non avrebbe potuto escludere metà della popolazione italiana. Ma la sensazione di essere figlie di un dio minore era così profondamente interiorizzata, che persino le donne che facevano politica scivolavano su lapsus significativi come questo.
Una volta acchiappata la sospirata scheda elettorale, non c’è stato, però, il paventato assalto alla diligenza del potere da parte femminile, e le donne hanno lasciato sostanzialmente la gestione della politica nelle mani degli uomini. Perché? Disinteresse nei confronti dell’esercizio del potere, attaccamento a un’esperienza identitaria formata storicamente all’ombra del privato, rifiuto di misurarsi con una politica troppo modellata al maschile? Certo le percentuali di donne nel Parlamento italiano sono state sempre piuttosto misere, e curiosamente la punta più bassa è stata toccata proprio in corrispondenza degli anni in cui il femminismo occupava le piazze. Ma le femministe ritenevano che la pratica politica delle donne dovesse riflettere la differenza di genere, che si nutrisse dello scambio di esperienze, che passasse attraverso la crescita della forza autonoma delle donne più che attraverso i partiti politici.
Non è da molto tempo che lo scarso numero di elette è vissuto come un disturbo funzionale della democrazia, come una ferita aperta nella rappresentanza. Se le donne sono poche, si dice, vuol dire che da qualche parte vengono bloccate, che agiscono forme striscianti di discriminazione che bisogna bilanciare con «azioni positive». L’ipotesi andrebbe verificata fino in fondo, perché pur essendo realistica, non è esaustiva. Invece sembra ormai che l’unica soluzione sul tappeto sia l’imposizione delle quote. Anche ieri, Barbara Pollastrini, appena insediata alle Pari opportunità ma già stabilmente classificata tra le ministre «zapatere», proponeva le quote rosa come una soluzione ideale non solo per le liste elettorali, ma per tutte le nomine pubbliche, e anche per l’industria privata.

Saremo dunque costrette all’occupazione del potere per amore o per forza, inseguendo il modello maschile di «uomo pubblico», come fosse il massimo a cui tutti, uomini e donne, possiamo aspirare.

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