Cultura e Spettacoli

Von Trier: nel mio «Manderlay» l’idealismo fa crollare l’utopia

Maurizio Cabona

da Copenhagen

«Il politicamente corretto - mi dice Lars von Trier - è la paura di parlare».
Allora lei è impavido!
«Chi è politicamente corretto è concorde e conforme, ma politica è discorde e non conforme».
Dunque?
«Il politicamente corretto è la fine della politica».
Il regista danese - che aveva salito gli scalini del palazzo del Festival di Cannes sulle note dell’Internazionale - liquida così l’ideologia egemone nella stampa cinematografica. E paga un prezzo: fra gli adoratori delle Onde del destino (Gran premio della giuria, 1996) perfino di Dancer in the Dark (Palma d’oro, 2000) ci sono i detrattori di Dogville (dvd Medusa) e soprattutto del seguito, il più snello e corrosivo Manderlay, da oggi nei cinema.
Stessa ricostruzione teatrale, ma impronta più filmica che in Dogville, Manderlay ha lo stesso personaggio principale, Grace. Siamo ancora nei primi anni Trenta del XX secolo, ma passiamo dalle miserie dell’immaginaria e mineraria «città del cane», sulle Montagne Rocciose alla rurale Alabama dei nipoti degli ex schiavi, liberati controvoglia. Abituati al baratto sottomissione/protezione, esitano a condividere il «fardello dell’uomo bianco», perché perderebbero la protezione senza acquisire l’eguaglianza sostanziale, quella economica.
Ma Grace (non più Nicole Kidman, ma Bryce Dallas Howard, figlia del regista Ron Howard) impone loro d’emanciparsi. Davanti ai primi ostacoli, lei crede che l’ostacolo alla sua filantropia sia il «libro delle regole», attribuito alla padrona (Lauren Bacall) degli schiavi: l’ha stilato invece lo schiavo più autorevole (Danny Glover)!
Signor von Trier, che Glover abbia accettato il ruolo stupisce.
«Danny non è Sidney Poitier o Denzel Washington. Se ne infischia del politicamente corretto. Ma gli spiaceva che la storia fosse solo dalla parte dei bianchi. E aveva ragione».
Come le è venuta l’idea dei prigionieri decisi a restarlo?
«Dalla postfazione di Jean Paulhan al romanzo Histoire d’O, dove si parla di un rifiuto collettivo della libertà nelle Barbados nel 1838».
Grace lastrica di buone intenzioni l’inferno di Manderlay...
«Per forza: è stupida, emotiva, idealista. In politica è la miscela peggiore».
La migliore qual è?
«Se Grace fosse intelligente, pacata e cinica».
Lei non vincerà più un Festival!
«Forse. Ma in politica occorre cinismo».
E nei Festival ipocrisia. A giudicare Manderlay c’era Toni Morrison! E nel 2003, a giudicare Dogville c’era Patrice Chéreau!
«Poiché non sono cittadino degli Stati Uniti, non voto per determinarne la politica. Posso fare solo dei film su di essa».
A ogni critica al modo di vita americano, un non-americano parla d’antiamericanismo.
«Non sono mai andato negli Stati Uniti. Vi ambiento la mia trilogia - la prossima puntata s’intitolerà Washington e fra gli interpreti ci sarà John Hurt, per ora solo voce narrante nella versione originale - perché degli Stati Uniti il pubblico sa molto e ci si ritrova più che se ambientassi i miei film in Danimarca».
Le nostre culture...
«... di danesi o di italiani sono americane al 60 per cento».
Se un americano girasse un film sul razzismo in Danimarca...
«... sarei contento! Il problema è che l’America è seduta sul mondo. Un danese non può ignorarlo, mentre un americano può ignorare la Danimarca».
Anche lei è contro...
«L’egemonia di Hollywood? Me ne infischio».
E quando va al cinema...
«...

preferisco Million Dollar Baby di Eastwood, Collateral di Mann e i Kill Bill di Quentin Tarantino ai film di Bernardo Bertolucci».

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