Ma il voto di preferenza non serve solo a Grillo

Il nostro Massimo Teodori ha esposto sul Giornale di giovedì scorso, a proposito del «grillismo» e dei «falchetti» che gli volteggiano attorno, l’analisi critica forse più penetrante fra tutte quelle che mi sia capitato di leggere dopo le invettive scurrili lanciate contro i partiti dal comico genovese. Il quale ne vorrebbe «la distruzione» considerandoli tutti «un cancro», ad eccezione evidentemente di quello ch’egli sembra tentato di costruire sulle liste civiche sollecitate per le prossime elezioni comunali.
Non condivido tuttavia il tono un po' troppo apodittico con il quale l’amico Teodori ha liquidato la presunta «banalità» della «reintroduzione delle preferenze» come rimedio ad una delle proteste di Grillo, purtroppo giustificatissima, contro i parlamentari solo formalmente eletti, in realtà nominati dai rispettivi partiti grazie al sistema vigente delle liste bloccate dei candidati.
Secondo Teodori sarebbe «un rimedio peggiore del male» il ritorno al voto di preferenza. Ma perché? Contrariamente a quanto ritengono in molti, esso non fu abolito per raccogliere l’istanza popolare espressa dal referendum del 1991: quello che Bettino Craxi e Umberto Bossi, pur da sponde opposte, invitarono inutilmente a disertare raccomandando di andare piuttosto «al mare».
Quel referendum chiedeva di abolire, e abolì, le preferenze plurime, lasciando agli elettori il sacrosanto diritto di esprimerne una sola, come avvenne nelle elezioni dell’anno dopo. A sopprimere il diritto alla preferenza fu nel 1993 il Parlamento, peraltro già in via di scioglimento anticipato, con una legge elettorale concordata fra la segreteria del Pds-ex Pci e quella della Dc. Che era appena passata nelle mani della sinistra con Mino Martinazzoli ed era interessata ad espugnare con il sistema appunto delle liste bloccate anche i gruppi parlamentari del partito, dove le correnti moderate e anticomuniste grazie proprio al voto di preferenza erano sempre risultate in maggioranza. Una volta acquisito il controllo anche dei nuovi gruppi parlamentari con le liste bloccate della quota proporzionale, la sinistra scudocrociata riuscì dopo le elezioni del 1994 a spostare quel ch’era rimasto della Dc, e che si chiamava Partito Popolare, nello schieramento rosso che portò nel 1996 Romano Prodi a Palazzo Chigi.
L’abolizione del voto di preferenza non è servita neppure ad un altro scopo reclamato dai suoi detrattori: quello di contenere i costi delle campagne elettorali, che sono continuati a salire.

Così come non mi sembra cessata la tentazione di vendersi il voto, questa volta di lista, in chi era abituato a vendersi le preferenze, specialmente al sud, dove allignano maggiormente clientelismo e partiti dal prefisso telefonico che tengono in pugno l’accidentato e forse esausto bipolarismo italiano.

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