
Torna in libreria, tratto da una vecchia conferenza, un breve testo di Umberto Eco, Riflessioni sul dolore (La nave di Teseo, pagg. 62, euro 6). Come tanti, ho sempre subito, fin dall'adolescenza, il fascino di Eco. Leggevo i suoi articoli sull'Espresso avventurandomi perfino nei suoi libri di semiotica. Eco mi appariva a un tempo come l'emblema stesso della Modernità in tutto quello che questa parola conteneva di desiderabile, e insieme come il solo tra i miei contemporanei - perlomeno in Italia - capace di leggere i tempi e di prevederli, come quando fondò il Dams a Bologna, certo che il futuro delle arti sarebbe stato diverso dal passato. E così fu.
Eco arrivava sempre prima degli altri, e questo mi affascinava. Era un tempo (gli anni '70) in cui si parlava di Progresso molto più di oggi: una parola che accendeva l'entusiasmo così come oggi mette paura. E Umberto Eco ne era l'emblema, e a diciassette anni mi sarebbe piaciuto diventare come lui. Tuttavia, con gli anni e con l'accumularsi di opere, interventi, articoli, e soprattutto con il ripensamento delle cose lette in passato, il mio sguardo su questo grande personaggio è cambiato, facendosi, quantomeno per me, più interessante.
Riflessioni sul dolore si segnala, prima ancora che per il tema, per la forma: quella del «trattato» o meglio, in questo caso, del «trattatello», date le esigue dimensioni. E la forma del trattato è una forma antica, preromantica, così che anche il suo contenuto ne assorbe il principio formale.
Il primo libro di Eco che lessi s'intitolava, significativamente, Trattato di semiotica generale. Eco appartiene insomma alla genìa dei trattatisti, e la semiotica - che era la sua materia prima che il romanzo sconvolgesse la sua esistenza - è una scienza per trattatisti, uomini senza tempo e dai nomi leggendari: Roman Jakobson, Algirdas Julien Greimas, Jurij M. Lotman. Eco appartiene a questa razza.
Il nostro libretto ha infatti la stessa forma di testi analoghi di autori antichi e medievali: quella di una trattazione arricchita, come sempre, da numerosi esempi e citazioni che preparano l'enunciazione della tesi finale. Tema: il dolore o, meglio, il dolore come esperienza raccontabile. Il racconto del dolore, fisico e spirituale, la sua interpretazione nel corso dei secoli sono rivelatori del tipo di attenzione che le diverse epoche hanno destinato a questa esperienza fondamentale, dall'antichità ai nostri giorni. Il testo si sviluppa con nutriti esempi tratti da Tertulliano (III sec.), Gibbon (XVIII sec.), Sebastiani Paoli (idem), Carlo Girolamo Severoli (idem), Paolo Segneri (XVII sec.), Schopenhauer, Nietzsche, Leopardi, Montale, Schiller, Sartre.
Come si vede, abbondano in questo elenco gli autori di età barocca, e a me sembra di capire che la ragione di questa preferenza stia nel fatto che in quell'età il racconto (spesso compiaciuto) del dolore, dell'anomalìa, della diversità, della mostruosità, dall'esibizione della marcescenza fisiologica, della filippica contro i peccati umani giustamente puniti da un Dio vindice e inflessibile ecc. - questo racconto, dicevo, stia agli antipodi rispetto al tempo presente, in cui il dolore subisce una censura e viene isolato in un mondo a parte con un linguaggio a parte, tecnico, specifico, mentre al di qua di quella barriera prevale il silenzio.
Il discorso segue, insomma, le antiche regole della retorica, alla quale quest'uomo così moderno attribuisce, giustamente, un grande valore conoscitivo: come se un sapiente venuto da altre epoche (le forme sono fatte soprattutto di Tempo) leggesse la nostra. E la conclusione, rapidissima e profonda, quasi buttata lì come una specie di fuori programma, è perfettamente in linea con questo modo di raccontare. È necessaria, dice Eco, un'«educazione al dolore». Il dolore deve ridiventare un oggetto di conoscenza, perché la conoscenza è la prima e fondamentale medicina.
Il malato che non conosce la natura della propria malattia soffre di più: «Sapendo cosa stiamo subendo, vi sappiamo resistere meglio. La conoscenza, vorrei dire la cultura, alza la soglia della sofferenza» scrive Eco, che crede ancora al valore di una parola come «educazione», che oggi si preferisce evitare (così come il dolore).
Vengono alla mente nomi di altri tempi, saggi stoici o cristiani, come Severino Boezio, che scrissero nella stessa direzione. Umberto Eco ha sicuramente abitato il nostro tempo, ma lo ha fatto con una larghezza di prospettive a noi ignota, e che merita ancora molti studi.
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