Washington e Pechino un dialogo tra sordi

Hu Jintao ha concluso il suo periplo americano in maniera un po’ surreale e un po’ scontata: con un discorso sulla pace all’Università di Yale e una cena alla Camera di Commercio. Come a confermare di essere venuto in America per incontrare l’America e non soltanto né principalmente per incontrare George Bush. All’America il leader cinese ha rivolto qualche messaggio e parecchi segnali, soprattutto verso il mondo economico con cui ha confermato di intendersi meglio che non con quello politico; com’è logico del resto dal momento che la Cina da quando Deng lanciò le Quattro Modernizzazioni (più di un quarto di secolo fa) si è concentrata nell’arricchirsi, con straordinario successo, e ha messo nel cassetto le iniziative politiche con l’intenzione di tenercele chiuse il più possibile. Ma il tempo è scaduto proprio a causa delle dimensioni che il Paese ha raggiunto con quella cura ricostituente. La grande politica, a questo punto, si è riaffacciata. Si spiega così l’esito, per molti deludente, del vertice fra i due presidenti: in agenda c’erano troppe cose, nessuna delle quali pienamente matura.
L’America, in realtà, di agende ne ha tre. Il mondo del business chiede ai cinesi una svalutazione dello yuan che riduca il colossale disavanzo negli scambi. Il Congresso, riflettendo in buona misura l’opinione pubblica, chiede una maggiore liberalizzazione politica, l’estensione del boom economico alla democrazia. E Bush chiedeva la solidarietà di Pechino nella «guerra al terrore» e in particolare nella sua decisione di impedire quasi ad ogni costo che l’Iran diventi una potenza nucleare. Hu ha risposto, più o meno cortesemente, picche a tutti.
Al mondo economico ha promesso che qualcosa farà ma ha anche fatto rilevare che una rivalutazione drastica dello yuan avrebbe conseguenze negative non solo per la Cina (freno alle esportazioni), ma anche per l’America perché potrebbe trascinare il dollaro in una caduta a sua volta destabilizzante e foriera di inflazione e aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti. Della «liberalizzazione» l’ospite ha praticamente evitato di parlare se non in formule molto generiche e per nulla impegnative. Quanto all’Iran egli ha ribadito che la Cina non intende comportarsi diversamente da come sta facendo da anni di fronte ai progetti nucleari di un altro Paese sulla lista nera di Washington, la Corea del Nord.
Un ruolo di mediazione, che Hu ritiene abbia avuto finora un certo successo: opinione condivisa in America da una minoranza, ma contraddetta meno di prima dalla Amministrazione, che si rende conto di non poter affrontare un numero illimitato di crisi contemporaneamente e che, se costretta a scegliere, con innegabile coerenza dà la precedenza all’Iran. Per la Cina le priorità sono semmai capovolte, ma la linea di Hu è quella della assoluta parità fra i due «casi». Dunque egli si dice pronto a continuare a lavorare assieme a Bush, ma unicamente per via diplomatica e di negoziato, respingendo ogni accenno a una soluzione militare cui Bush non intende invece rinunciare.


Come conseguenza pratica, la Cina si opporrà, nella prossima riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a sanzioni che contengano anche il più sottile «appiglio» per dichiarare l’Iran inadempiente. Cioè a un bis da parte americana del procedimento seguito per giustificare l’attacco all’Irak.

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