Cultura e Spettacoli

WODEHOUSE L’arte di ridere a denti stretti

Una biografia del creatore del maggiordomo Jeeves sottolinea il suo contributo al musical Usa

Entri nella grande libreria milanese, sempre più un supermercato che un tempio della cultura, e che cosa trovi sugli scaffali, anche negli assolati mesi di luglio e d’agosto, per far ridere i lettori? Ancora e sempre il vecchio P.G. Wodehouse (la P. sta per Pelham e la G. per Grenville, ma lo scrittore non ci teneva molto che si conoscessero i suoi strani nomi: preferiva farsi chiamare Plum, prugna).
Guanda ha appena ristampato La conquista di Londra (titolo originale Bill the conqueror, pagg. 310, euro 16,50). Sono una decina i libri wodehousiani ristampati tra il 2005 e il 2006, da tre case editrici (Guanda, Polillo, Tea). Più di quelli di un umorista considerato letterariamente più fine, Mark Twain. Mentre l’ultimo libro di Jerome K. Jerome ristampato è del 2003. Non solo. Baldini Castoldi Dalai ha pubblicato quest’anno Sveglia, sir di Jonathan Ames (pagg. 460, euro 19), un libro di esplicito omaggio a Wodehouse: il protagonista ha un maggiordomo di nome Jeeves.
Spiegarsi perché un autore che parla rigorosamente (tranne qualche excursus a New York come in La conquista di Londra) dell’Inghilterra tra il 1913 e il 1924 («Sono lo storico - dice di sé Wodehouse - di un’epoca in cui esistevano i maggiordomi. D’altra parte c’è chi ambienta i racconti all’epoca delle crociate, perché io non potrei farlo con l’epoca dei maggiordomi?») sia così ancora amato, è un modo per capire qualcosa di questa nostra modernità.
Per comprendere la lunga durata del wodehousismo non è male che chi conosce l’inglese si legga una biografia uscita recentemente, scritta da Robert McCrum, direttore della sezione letteraria del settimanale Observer (Wodehouse. A Life, pubblicata in versione economica da Penguin nel 2006). Chi leggerà questa biografia, oltre che ritrovare centinaia di battute degli eroi del Castello di Blandings o del Drone club disperse per il libro; oltre che tornare a misurarsi con la tesi di George Orwell, il grande scrittore anticomunista, autore della Fattoria degli animali e di 1984, che sosteneva come la forza di Wodehouse consistesse nell’essere rimasto un collegiale da public school inglesi, fermo nel suo tempo vittoriano, portatore del candido punto di vista di un adolescente un po’ represso da un’educazione notoriamente severa ma - come si direbbe oggi - molto socializzante. Oltre a questi particolari e giudizi già noti, il lettore wodehousiano trova nell’opera di McCrum due approfondimenti.
Il primo è sul Wodehouse inventore del musical americano nella stagione dal 1914 al 1920, quando contribuisce con Guy Bolton e Jerome Kern a trasformare l’operetta europea (essenzialmente viennese), con quella sua aria da paesone mitteleuropeo, negli spettacoli sofisticati che raggiungeranno la perfezione con i Gershwin e i Fred Astaire. Anche chi non conosceva questa attività wodehousiana non poteva non intuire che tra certe commedie tipo Top hat e Bertie Wooster ci fosse un legame strettissimo.
L’altro aspetto della vita di Wodehouse esaminato da McCrum è il suo comportamento da prigioniero dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale, quando per tre sue trasmissioni radiofoniche, un paio d’interviste e, dopo un internamento duro, un soggiorno a Berlino un po’ troppo comodo, fu accusato di collaborazionismo fino a sfiorare l’incriminazione per tradimento. Sono stato un asino e ne pago il fio, disse di sé lo scrittore che negò però qualsiasi collaborazione con i nazisti. Le battute che recitò nelle trasmissioni incriminate, organizzate per motivi propagandistici dal ministero degli Esteri tedesco, erano le stesse con cui tirava su il morale dei soldati con lui internati in un campo in Slesia.
Così descriveva la sua avventura: «Come si diventa un internato? Be’, ci sono diversi metodi. Il mio in particolare è stato quello di comprare una villa a La Torquet sulla costa francese e stare là finché sono arrivati i tedeschi. Questo è probabilmente il migliore e più semplice dei sistemi. Tu compri la villa e la Germania fa il resto». È evidente come queste parole trasmesse da Berlino non facessero ridere gli inglesi sottoposti ai bombardamenti della Luftwaffe. E che - come lo stesso Wodehouse disse in seguito - avrebbe fatto bene a stare zitto. Fuori dal terribile contesto, va osservato però che proprio la leggerezza wodehousiana espressa (inopportunamente) nelle trasmissioni incriminate, resta una delle ragioni importanti per combattere truci regimi totalitari come quello nazista.
Ed è questa leggerezza, questo clima ridicolo ma idilliaco dei suoi racconti che lo rende ancora così amato. Si sa, lo ha spiegato Sigmund Freud, che il riso è provocato da uno slittamento rispetto alla normalità: ma si può «slittare» immergendosi in una realtà ancora più pesante di quella in cui si vive o astraendosi in una surrealtà leggera. La contraddizione con la normalità, la causa del ridere, c’è in entrambi i casi, ma con basi diverse. È una lunga storia, quella della risata, divisa da questa fondamentale cesura: più reale, meno reale. C’è in Plauto con il soldataccio fanfarone e gli aerei giochi dei Menecmi, i gemelli. William Shakespeare che, come ha detto il guru della critica americana, Harold Bloom, ha fissato il canone moderno di tutti generi letterari ha Falstaff e le sue aeree commedie. Oggi il linguaggio alla Falstaff ha tanti seguaci anche nella versione scatologica della commedia americana o degli spettacoli alla Zelig. Trovare qualcosa di aereo è più difficile.

E ancora più complesso trovare qualcosa migliore di Wodehouse in questo campo.

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