di Massimo Colombo
Di «talent show» si può (anche) morire. Provare per credere. Basta un lunedì sera trascorso sugli spalti del mega «studio 5», centro di produzione Rai di via Mecenate, e ve ne accorgerete. Stiamo parlando - lavrete già capito - di «X Factor», la trasmissione di Rete 2 dedicata ai giovani talenti della canzone, arrivata (crediamo stancamente) alla quinta puntata. Lo studio televisivo (tecnologie avanzatissime, 2400 metri quadrati, 800 posti), gioiello del polo Rai milanese, laltra sera, come tutti i lunedì, si è trasformato in una specie di arena gladiatoria, imbottita di pubblico urlante che, pestando i piedi senza sosta come a una manifestazione sindacale, ha accompagnato (si fa per dire) i concorrenti nelle loro performance. Sul palco, il giovane (e bravo) Francesco Facchinetti. Di fronte, il trio degli svogliatissimi giudici (limpomatata Simona Ventura, la matronesca Mara Maionchi, lo svanito Marco «Morgan» Castoldi), tristemente antipatici per motivi diversi e peculiari. I quali, ad ogni passaggio dartista, ripetevano le stesse, ovvie, stucchevoli banalità, a corredo di uno stanco tormentone che può dire grazie soltanto al backstage. Vale a dire alla capacità della macchina produttiva, fatta di evidenti professionalità, nonché risorse tecniche e tecnologiche, che si trasfondono anzitutto in un impianto scenografico oggettivamente coinvolgente. E grazie - perché no - ai concorrenti. Gli unici a impegnarsi in qualcosa che abbia senso compiuto. E a crederci. Dimenticavamo: gli «special guest» Irene Grandi e Alessandro Gassman, pesci fuor dacqua teneri e persi in quella bolgia infernale. Per il resto, solo noia. Al di là dellapparenza. Così, dopo la sudata dellaltra sera, abbiamo portato a casa le nostre modeste considerazioni. Nella convinzione che la «potenzialità» del centro di produzione milanese possa e debba essere orientata diversamente.
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