Yasushi e la natura anfibia dei sentimenti

Laura Novelli

Scendere negli abissi dei sentimenti attraverso le parole di autori che, pur se in modo diverso l’uno dall’altro, ne hanno saputo restituire la complessità e il mistero: è questo uno degli obiettivi principali che il regista Piero Maccarinelli persegue da qualche anno, consapevole che ci sia bisogno di affrontare teatralmente questo tema sconfinato e che proprio il teatro possa essere un veicolo insostituibile in tal senso. Ce ne ha dato dimostrazione, nelle stagioni scorse, in due lavori significativi come L’invenzione dell’amore di Tom Stoppard e Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes (su rielaborazione drammaturgica di Rita Cirio). E ce ne dà dimostrazione adesso, quale artefice di una coraggiosa lettura scenica de Il fucile da caccia di Inoue Yasushi (uno tra i maggiori scrittori giapponesi del ’900) che coincide pure con l’avvio di un corposo progetto culturale facente capo alla neonata associazione «Artisti Riuniti».
Riscritto ad hoc da Rocco Familiari, il racconto di Yasushi (pubblicato nel ’49) assume qui il profilo geometrico di un gioco a incastro dove le vite e le passioni di quattro personaggi borghesi (tre donne e un uomo) si offrono al pubblico in un susseguirsi di monologhi (forma quanto mai adatta a rendere lo stile epistolare del romanzo) che schiudono rivelazioni inattese e verità sconcertanti.
Perno della vicenda è la figura di un cacciatore fornito di fucile (alter ego del Poeta stesso) interpretata da un Maurizio Donadoni: anello centrale di una catena di legami che tiene insieme una moglie tradita e ormai lontana (Midori/Valentina Sperlì), un’amante-cognata prossima alla morte (Saiko/Anita Bartolucci) e una nipote incredula cui spetta il gravoso compito di scoprire, in occasione proprio del suicidio della madre Saiko, un lungo passato di menzogne e raggiri (Shoko/Chiara Muti).
Siamo dunque nel perimetro di una scacchiera che agita le sue pedine avanti e indietro nel tempo ma che - complice anche un impianto scenico sobrio e lineare - le mantiene comunque ferme, assolute, forse in alcuni passaggi addirittura algide. Come se tutto fosse inesorabilmente già dato. Come se tutto fosse sognato, evocato, rivissuto in un tempo eterno. E come se, in definitiva, la separazione tra i personaggi, la loro sostanziale impossibilità di donarsi veramente all’amore, l’apparire e sparire delle ombre della memoria, la compassata solitudine delle storie raccontate servissero per dimostrare la natura anfibia dei sentimenti: ora chiari e dichiarati, ora taciti e torbidi, ora decorosi e conformi alle convenzioni, ora ingiustificabili e misteriosi. Stessa varietà la ritroviamo, d’altronde, nei caratteri delle protagoniste femminili: la Muti sembra inclinare per i toni secchi e perentori; la Sperlì accentua le note di soffusa ambiguità, mentre la Bartolucci si divide tra luci e ombre con declinazioni decisamente melò. I loro mondi però non sempre si incontrano; non sempre si danno per complementari e dipendenti.

Tanto che, a fronte di un testo senza dubbio colto e di un impianto raffinato, il lavoro rimane sulla soglia di un intellettualismo marcatamente formale. E viene da chiedersi se maggiore umanità, calore e pathos non avrebbero giovato a questo ritratto umano dolente e, in fondo, sconsolato.
Al teatro Valle fino al 20 dicembre. Info: 06.68803794.

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