Yellowjackets: la fusion che non annoia

Antonio Lodetti

C’era una volta la fusion, quella vera (Weather Report, Herbie Hancock ecc.) e quella disastrosa commistione di jazz e rock che infastidiva i puristi del jazz e mandava in sollucchero i rockettari. Oggi la fusion è un ramo minore ma fertile della musica popolare e ha negli Yellowjackets uno dei gruppi di punta. La band americana, attiva dalla metà degli anni ’70, ha tenuto dodici concerti (da martedì a domenica scorsa) al Blue Note di Milano, tappa di una lunghissima tournée europea, presentando tra l’altro il nuovo cd Altered State. Saldamente guidato dal sax di Bob Mintzer, il gruppo è ormai il simbolo di una contaminazione sonora che viaggia tra il jazz rock e un attuale jazz elettro-acustico con venature bop. In buon equilibrio tra temi lenti (Mother Earth) e ritmi galoppanti (Blue Jam) il quartetto trascina il pubblico tra citazioni colte, popolari e divertissement (Mintzer si autocompiace un po’ troppo con il suo sax elettronico o «sax Midi») costruendo un concerto divertente ed onesto, giocato sia sui numeri virtuosistici (Russell Ferrante al piano e all’organo, Jimmy Haslip al basso, Marcus Baylor alla batteria sono ottimi musicisti) che sul lavoro d’assieme.

Non sono dei fenomeni gli Yellowjackets, e a volte paiono indecisi se buttarsi definitivamente sui terreni del jazz o frenare verso quelli funkeggianti, però sanno dare i giusti colori e le giuste atmosfere alle loro composizioni (emblematica Sea Folk, tratta dall’album Time Squared), segno di una certa nobiltà in un filone solitamente freddo e commerciale come quello della fusion.

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