Castrezzone (Brescia) - Fiocco azzurro in casa Zabbialini. Per la seconda volta, è nato il primogenito Alberto. A darne il lieto annuncio sull’uscio di casa, davanti alla folla dei parenti e dei compaesani, quando ormai sono le tre del mattino, sono la mamma Francesca, il papà Angelo e il fratello Luca. Il neonato pesa dieci chili in meno, ha i capelli a matassa e la barba lunghissima, come un Robinson Crusoe ripescato miracolosamente in mezzo al nulla.
Dal 13 maggio questa famiglia di estrema provincia, casa e bottega dove si cambiano gomme e si riparano motori, aspettava il lieto evento. Quel giorno Alberto aveva raccolto un po' di soldi e il suo scooter, andandosene per chissà dove. A 28 anni, si sentiva già un uomo morto: dalla clinica di Vobarno, dove si era sottoposto ad alcuni esami clinici per quello strano malessere che lo affliggeva da qualche tempo, gli avevano fatto intuire cose fosche. O forse le aveva intuite lui da solo, viaggiando con la fantasia, di spettro in spettro, come tante volte ci succede davanti all'ignoto dei responsi medici.
L'idea di avere l'Aids, o qualcosa di molto simile, è alla base di questa storia ai confini della realtà. In pochi attimi, dopo la telefonata alla clinica, l'esistenza normalissima di un ragazzo qualunque, bravo meccanico con la passione per il calcio e per la caccia, diventa caso nazionale. Il cortocircuito dello spavento mette subito in moto la catena di eventi angosciosi. Alberto fugge, vittima del panico. Lungo la strada, si ferma solo per una telefonata alla mamma: «Abbiate cura di Simona». Clic. Simona è la fidanzata. Dopo queste parole, nebbia e silenzio. E ricerche nella zona di Vado Ligure, dove viene ritrovato il motorino. E appelli televisivi. E inviti a tornare da parte dell'idolo Buffon. E terrore, il 19 giugno, quando si rinviene un cadavere nei boschi sopra Savona: solo l'esame del Dna rivelerà che si tratta di un'altra persona, un pensionato disperso. E attesa, e segnalazioni fasulle, e disperazione. E che altro, ancora?
A raccontarlo compare l'intera famiglia, sotto al portico di casa, subito dopo pranzo. Trascorsa la mattinata dai carabinieri, per ricostruire a verbale l'odissea, Alberto è reduce da pollo arrosto e verdura, tutto di produzione casalinga. Appare ancora confuso. Parla a fatica, ovviamente non benissimo: «Ciao a tutti, non voglio dichiarare».
Alle prime domande, però, accetta di chiarire qualcosa. Cominciando dalla fine. «Domenica pomeriggio m'è venuta la curiosità di sapere qualcosa. Sono sceso dal mio bosco, sopra Savona, in un Internet-point. Ho messo il mio nome, il mio cognome, e ho cliccato. Mi è subito apparsa una cascata di articoli. Una cosa mi ha colpito subito: tutti dicevano che non ero malato. Alle otto di sera, ho chiamato casa: volevo sapere la verità».
Alle otto di sera, dall'altra parte del filo, c'è sua madre. «Mamma, sono io, Alberto. Sto bene. Però dimmi la verità: davvero sono sano? Giuralo, mamma...». Lei è sul punto di svenire. Racconta adesso, stringendosi la creatura rinata: «Gliel'ho ripetuto dieci volte. Non hai niente, non sei malato. Ti scongiuro, torna a casa...». Silenzio lungo come l'intensità di una speranza ritrovata. «Torno, mamma. Torno. Prendo il treno, arrivo a Milano per mezzanotte...».
Stazione Centrale: la fidanzata e un amico abbracciano il profugo. È il ritorno da un altro mondo. Da un'altra dimensione. Quando arriva al paese, poche case sulle colline verso il Garda, sono tutti lì ad aspettarlo e ad applaudire. Un saluto, tanta emozione. Alberto rientra nella sua casa. Alle cinque la mamma lo chiama nel lettone, come quando era bambino, anche ora fragile e smarrito come nelle notti di temporale. Alberto comincia ad aprirsi, nel nido dove credeva non sarebbe tornato mai...
Andandosene, pensava di farla finita. O forse, non trovando il coraggio, pensava solo di lasciarsi finire, tra i boschi, allo stato brado, come un naufrago di terra ferma. Tre mesi così, senza cognizioni di spazio e di tempo, sulle montagne liguri. Adesso concede solo flash di memoria: «All'inizio ho mangiato fichi e more. Poi, dopo un mese, ho cominciato a scendere in un Autogrill della zona, per comprarmi qualcosa. Le ricerche? Certo immaginavo che mi cercassero. Una volta ho sentito la voce di uno zio che mi chiamava, in lontananza. Ma non volevo farmi trovare...». Chi può dire: solo lui davvero sa. Solo Alberto conosce i tortuosi processi interiori che l'hanno portato lì. Può starci anche la vergogna di ritenersi sieropositivo, e di doverlo in qualche modo spiegare al mondo piccolo del suo mondo. Ripensando allo choc degli esami medici, quel che riesce ad aggiungere oggi è solo una frase carica di muto risentimento: «Non fatemi parlare di quel medico...».
Il papà è a suo modo un prodotto tipico della zona: artigiano lavoratore e ciarliero. Solleva il figlio dalla fatica di altri dettagli: «Signori, lasciamolo tranquillo. Dite grazie a tutti da parte nostra. Dite che siamo la famiglia più felice del mondo. Dite anche che non auguro a nessuno il giorno in cui mi hanno annunciato il ritrovamento di un cadavere nella zona dove avevano trovato lo scooter... Il resto conta poco. Avremo tempo di chiarire. Alberto adesso ha solo bisogno di pace».
Poi, accennando emozioni, libera la sofferenza del padre semplice e fiero: «Tante volte, in questi tre mesi, mi sono interrogato. Oltre al terrore, c'è anche questo. Dove sono mancato? Chi è genitore può capire. Io e Alberto lavoriamo in officina dalla mattina alla sera, d'amore e d'accordo. Ma poi, di fronte a certe cose, tutto ti cade addosso. Per fortuna, tornando a casa, ha spazzato via lui i miei dubbi».
Come davanti a un figliol prodigo, che per tre mesi gli ha fermato il cuore e l'esistenza, questo il signor Angelo pensa di Alberto: «Tornando, si è dimostrato intelligente. Quando vai, mostri la schiena: è facile.
Ma quando torni, devi mostrare la faccia: è molto più difficile. Alberto è riuscito, questo mi rende orgoglioso di lui».Fiocco azzurro in casa Zabbialini. Il papà, commosso, già stravede per Alberto, nato la seconda volta. Col tempo, gli insegnerà a camminare.
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