Zeffirelli: «Così siamo riemersi dall’alluvione»

Era a Roma, ma la sorella lo chiamò e lui arrivò all’alba: il reportage servì a raccogliere fondi

Luciano Gulli

nostro inviato a Firenze

Non è vero che l’alluvione di Firenze portò con se pianti e lamenti. Al contrario. Sconocchiata dalla furia dell’Arno, la città si fece un punto d’onore di non dargliela vinta, e alla bava di lordura lasciata dal fiumazzo rispose buttandola in sfida e rigirandola in sarcasmo. E se qualcuno, caricandosi sulle spalle il bugliolo grondante melma rivolgeva gli occhi al cielo dicendo: «Che Dio ci aiuti», c’era sempre pronto un altro, di ritorno col secchio vuoto, che senza intenzioni blasfeme aggiungeva: «Se non ci aiuta, pazienza: faremo qualche viaggio in più». Ognuno volle coniare la sua battuta e il suo motto, per spavalderia e sprezzo dell’uggia. Il commerciante che in mezzo ai suoi commessi si dava da fare per ripulire il negozio non piangeva la merce perduta né rimpiangeva quella avariata; e si abbandonava all’estro che gli suggeriva nuovi cartelli pubblicitari. «Oggi grandi ribassi. Prezzi sott’acqua», diceva uno. «Stoffa non restringibile. È stata già bagnata», si leggeva su un altro. «Oggi niente arrosto - scrisse una mano anonima sulla vetrina imbrattata di una trattoria - Soltanto umido». Accanto all’uscio di un caffè, divelto dalla piena, una scritta diceva: «Il locale resta sempre aperto».
«A chi, per un resto quasi savonaroliano d’ascetismo denunziava il carattere punitivo del flagello che aveva colpito la città discorde e proterva» - scrisse il sindaco di quei giorni, Piero Bargellini - veniva risposto sarcasticamente: «Infatti, tutti i cattivi, a Firenze, abitano al pian terreno».
Franco Zeffirelli sintetizza: «L’alluvione, per Firenze, fu come per Milano i bombardamenti. Innescò una voluttà di ripresa che aveva perfino i colori del gioco, se non ci fossero stati tutti quei danni da pagare. Invece di abbattersi si puntò alla ribalta. Vinse la voglia di far vedere al mondo di cosa son capaci i fiorentini».
Era a Roma, il maestro, la notte di quel 4 novembre 1966. Ma a fargli la cronaca minuto per minuto di quel che stava accadendo alla sua città pensò la sorella, che lo aveva svegliato alle due di notte raccontandogli quel che vedeva dalla sua casa di via dell’Oriuolo. Il regista si attaccò al telefono, svegliò Ettore Bernabei, che allora era presidente della Rai, e partì in tromba con una troupe. Arrivò a Firenze all’alba, al culmine della piena, e in capo a una settimana aveva in saccoccia le immagini di quello che sarebbe diventato il più bel documentario sull’alluvione. Un reportage crudo e drammatico, sobrio e teso, intessuto di grandi e piccole storie che avevano sullo sfondo la città violentata e sgomenta. A tenere il filo del racconto, la voce del grande Richard Burton. Un piccolo capolavoro che in capo a poche settimane, quando il film venne visto in America, convogliò nelle casse del Comune quasi 25 milioni di dollari, che erano bei soldi davvero all’epoca. E Bargellini, che sentiva quei soldi bruciargli le mani li dirottò immediatamente (insieme con gli smoking che il barone von Thyssen gli aveva mandato a bracciate, per la serie: ognuno dà quel che può) ai cittadini che avevano perso chi la casa, chi la bottega, chi l’automobile.
Domani, domenica, quello storico documentario verrà proiettato nel Salone dei Cinquecento, dopo che il sindaco Domenici avrà consegnato al maestro un riconoscimento a nome della città.
Cosa la colpì di più, di quelle giornate?
«Le lingue che si sentivano parlare. In pochissimo tempo la città venne invasa da un esercito di ragazzi e ragazze che arrivavano da tutto il mondo per portare il loro aiuto. Più tardi li avrebbero chiamati “gli angeli del fango”. Venivano dalla Bulgaria, dai Paesi dell’Est, scavalcavano il muro di Berlino, perfino da Israele arrivarono. Fu l’ultima espressione del secolo di quel che i giovani son capaci di fare. E pensare che solo due anni più tardi, nel Sessantotto, quella stessa gioventù si imbastard셻.
Niente politica, invece, in quei giorni.
«Quando c’è la politica, tutto si sporca e si guasta. Lì trionfò invece l’amore, il sesso. Come al fronte, come sotto i bombardamenti, trionfò il vitalismo degli esseri umani. C’erano scandinave, americane, spagnole che amoreggiavano coi nostri soldati, coi nostri pompieri. Penso che siano nati bambini di ogni combinazione. È sempre così. Il destino porta le tragedie, e noi, in mezzo al dramma, riportiamo in scena la vita».
Torniamo a Firenze sott’acqua. Come riuscì a raggiungere la città?
«Fino al cimitero degli Inglesi, in piazza Donatello, le auto circolavano ancora. Poi furono i pompieri a darci una mano, caricandoci su un barchino in borgo Pinti».
Nel suo documentario, stranamente, non si vede il sindaco Bargellini, che era in tutt’altre faccende affaccendato. Ma i suoi familiari mi hanno mostrato una lettera del 21 novembre 1966 in cui lei, maestro, in un certo senso si scusa. Scriveva: “In quei giorni eravamo tutti agitati e inquieti come i piccioni quando scoppia il Carro…”».
«Ah sì. Ma non mancai di esprimergli tutta l’ammirazione per il suo stile e la fermezza con cui aveva saputo sostenere e guidare Firenze».
E Richard Burton? Come riuscì a coinvolgerlo?
«In quei giorni era con me a Roma. Lavoravamo al montaggio de La bisbetica domata, che segnò il mio debutto nel cinema. Nei mesi precedenti lo avevo portato a Firenze insieme con Elizabeth Taylor, e si erano innamorati pazzamente della città. Così, quando gli chiesi se voleva commentare quelle immagini per il pubblico anglosassone, in vista di una raccolta di fondi, lui accettò immediatamente. Volle poi fare anche una versione in italiano, anche se non parlava la nostra lingua.

Ci arrangiammo tenendogli alti dei cartelli dietro la macchina da presa. Dobbiamo a lui se quel documentario fece il giro del mondo».
Sicché domani le danno un premio…
«Be’, mi pare d’essermelo meritato, o che dice?».

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