Il titolo è magnifico: dopo la casta, la questua. Che non è soltanto, dunque, una raccolta di denaro, ma è anche una casta. La casta di chi - quod licet Iovi non licet bovi - può contare sugli introiti di una questua che non ha uguali al mondo. Si parla, va da sé, della Chiesa Cattolica.
Uscito per i tipi di Feltrinelli, La questua di Curzio Maltese (pagg. 172, euro 14) raccoglie e amplia un lungo servizio a puntate apparso su La Repubblica sul tema «Quanto costa la Chiesa agli italiani». Un tema che è un classico senza tempo dell’anticlericalismo (anche se Maltese, con modestia, declina il complimento) e che riporta la nostra coscienza storica alle grandi battaglie rivoluzionarie che condussero, a cavallo tra XVIII e XIX secolo, alla confisca di gran parte dei beni ecclesiastici, alla chiusura di conventi e monasteri e, non di rado, all’incarcerazione dei religiosi non ottemperanti.
La questione, in altre parole, non è marginale bensì di fondo: non un particolare, sia pure importante, del problema, bensì il centro stesso del problema. Ogni volta che una cultura avversa ha fatto i conti in tasca alla Chiesa il suo obiettivo non era quello di richiamare la Chiesa ai suoi compiti spirituali e al valore della povertà, ma quello - magari usando la solita contrapposizione pelosa tra «Chiesa dei potenti» e «Chiesa dei poveri» - di cancellare la Chiesa dalla faccia della terra.
Circa lo stile di questo libro, tutto se ne può dire meno che sia obiettivo o compassato. Maltese presenta molti numeri e diverse tabelle, tutte cose nelle quali non ho grande pratica, ma di cui so che, con un po’ di accortezza, si può far dire loro quello che si vuole, come dimostra il servizio apparso venerdì scorso in merito sul quotidiano Avvenire: non nel senso che siano cifre false (almeno speriamo), ma nel senso che molte delle voci riportate sono soggette a discussioni che sono più politiche che statistiche.
Dall’otto per mille all’esenzione da alcune tasse fino al finanziamento delle scuole cattoliche, sono indubbiamente molte le voci sul registro delle entrate ecclesiastiche da parte dello Stato. Resta però da discutere se davvero si tratti di regalìe indebite. Non sono i numeri a stabilirlo.
La discussione sul principio di sussidiarietà è oggi una delle più importanti tra quelle che riguardano la cultura di questo Paese e, specificamente, la natura e il destino del welfare state: non trovo perciò nulla di scandaloso se esiste qualcuno che ritiene, per esempio, la libertà di educazione una garanzia che lo Stato deve offrire ai cittadini. È opinione di molti che, se il regime scolastico italiano venisse equiparato a quello delle scuole private, e gli istituti scolastici fossero trasformati, come è accaduto in Inghilterra con Tony Blair, in altrettante fondazioni, coinvolgendo tutti i soggetti (quelli laici, intendo) presenti sul territorio, non soltanto migliorerebbe la qualità dell’insegnamento, ma lo Stato abbatterebbe costi oggi a dir poco spaventosi.
Ma le cifre - confortate anche dai calcoli del «grande matematico» Piergiorgio Odifreddi (come fa Curzio Maltese a sapere che Odifreddi è un grande matematico?, è un matematico pure lui o parla solo per sentito dire?) - parlano un’altra lingua...
Tuttavia il problema di fondo non riguarda i soldi, lo sappiamo bene. Riguarda invece un nodo culturale che sembra non voglia essere sciolto. Maltese è persuaso che l’asse portante della cultura italiana sia il dialogo tra laici e cattolici. Qui sta il vero guaio: che c’è chi vuole tener fermo il Paese a questo problema: da Porta Pia alle Guarentigie, dal Non Expedit al Concordato, da Don Camillo a Peppone, per qualcuno l’Italia dovrà restare sempre ferma a questa contrapposizione (detta «dialogo») di blocchi, di identità forti.
Maltese non usa toni molto dialoganti. Qualche esempio. Enormità: «Un cattolico (...) può offendere qualcuno perché è ebreo, o musulmano, o omosessuale...» (ahimè, esentasse anche in confessionale?). Veteromarxismo: «Le gerarchie cattoliche usano temi etici per mascherare importanti interessi economici» (manco «lotta comunista»). Similitudini: «Siamo la nazione che spende meno in Occidente per la ricerca e più d’ogni altra per finanziare la Chiesa, (ergo, ndr) esportiamo cervelli e importiamo santi e maghi». Eccetera.
Su una cosa sono invece d’accordo con Maltese: se vescovi e cardinali parlassero meno ed evitassero questo eccesso di esposizione mediatica anche su questioni non di primissima importanza, non sarebbe una cattiva idea. Un certo laicismo, politicamente debole ma culturalmente forte, intende attaccare la Chiesa al cuore, ed è perciò il cuore che va difeso: e il cuore non è una questione etica (non sarei cristiano, se così fosse), ma la notizia che il Verbo si è fatto carne, che cambia tutta la vita dell’uomo.
Nel testo introduttivo, Ezio Mauro ci presenta una sua versione molto numerica dell’idea di democrazia, che ricorda la definizione che ne diede Borges: una curiosa applicazione della statistica. E mette in guardia contro il pericolo costituito dalla pretesa della Chiesa nei confronti di una democrazia che «non contempla l’Assoluto». Anche qui, la discussione è aperta. Tocqueville, che sul tema della democrazia non è l’ultimo arrivato, ricorda che le premesse antropologiche della democrazia non sono contenute nel sistema democratico, bensì nei valori ai quali la persona umana è educata «prima» della democrazia.
Ma, chiuso il libro, resta l’impressione che l’accenno al dialogo laici-cattolici, per quel che vale, sia più che altro una boutade. Libri come questo non puntano a nessun dialogo, ma - poco o tanto - all’attuazione di un disegno antico.
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