Bravo è bravo, famoso è famoso, e come non bastasse è della schiera dei grandi fascinatori. Occhi neri, denti bianchi, pelle olivastra, fare seduttivo, look impeccabile. Il nostro è Zubin Mehta. L'unico direttore indiano del pianeta («ce n'era un altro, un certo Nazareth, chissà che fine ha fatto»). Rampollo di antica famiglia parsi, si materializza nello spazio per pochi intimi che la Scala chiama Sala Rossa. Siede, si informa, ci folgora. «Lei è più indiana di un'indiana». Allora coraggio. Di Mehta, che sta riconquistando il podio della Filarmonica negato da 13 anni, si sa tutto. E quello che non si sa si legge sull'autobiografia appena uscita per l'editore Droemer e tradotta in italiano da Excelsior 1881: La partitura della mia vita. «C'è poca Italia, ma provvederò alla prima riedizione. Anche perché è la terra delle mie imprese fiorentine e dalla mia casa a San Casciano, cuore nel cuore dei colli fiorentini». Quello che ci mancava del nostro (Bombay, 1936 ) era appunto l«indianità». Di Vienna e Salisburgo s'è detto. Ma l'India? Si sente e s'è sempre sentito soprattutto un indiano. Ama il suo paese e si strugge per il malgoverno che ha rovinato Bombay, ormai a quota 15.000.000 il 60 per cento dei quali totalmente privi d'acqua. La cultura musicale? Contrariamente ad altre aree l'India ha sviluppato enormemente la musica tradizionale, e non sente la necessità di contaminazioni.
Il padre Mehli Mehta, famiglia di tessili, era un autodidatta. Poi studiando a New York è diventato un violinista importante. La vita di Zubin («lancia del guerriero», un nome un destino) è dunque già spianata. Lui comincia direttamente da Vienna. Sempre con l'India dentro. Una India che poi avrebbe avvicinato alla nostra cultura tutte le volte che avrebbe potuto. Come nell'Ottanta, per Indira Gandhi, quando incluse in un sinfonico della New York il sitarista Ravi Shankar. Raga e tala, forse più concetti filosofici che teorie musicali, prevedono pochissima improvvisazione. Shankar tuttavia seppe adattarsi allo strumentale occidentale e anche inserire nell'impianto indiano un po' di sapore jazzistico.
La sua consuetudine con la Israel Philharmonic? Prima un caso. Era giovane e disoccupato e gli hanno offerto l'occasione. Poi un amore. Tel Aviv è una delle sue città con Firenze, Monaco e adesso Valencia (il nuovo Palau de la Musica). Sebbene lui sia spesso in disaccordo con la politica dello Stato di Israele, ma libero di dissentire. Progetti? Tanti. Uno con Barenboim, una tournée in India. Uno con la Scala. «Il nome dell'opera? domandatelo a Lissner». Uno, il più caro, il proposito di fare entrare nella Israel un arabo israeliano. Subito, nel bel mezzo dell'inasprimento del conflitto mediorientale. Gli arabi sono musicisti straordinari come ha dimostrato il pianista Salim Abul Ashkar nel III di Beethoven. A Tel Aviv esiste una Scuola Zubin Mehta che insegna alle orchestre. Mentre la Foundation Mehli Mehta di Bombay è una scuola per ragazzi indiani. Un problema, negli anni Sessanta, essere indiano? «No, una singolarità». La sua prima Scala? Siciliani che lo ingaggia e Ghiringhelli che si lamenta: prima un giapponese (Ozawa ), adesso un indiano
qui, nel tempio di Toscanini. Già stato allora a Milano? Nel'56 con i Pomeriggi. Era lo stesso anno del debutto. In un campo profughi ungherese ammassato alla periferia di Vienna, mentre avanzavano i carri armati sovietici. Allora furono danze ungheresi e l'Incompiuta. Lo stesso Schubert che appare oggi sui leggii della Scala accanto alla VII di Bruckner.
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