«Cusenza? E chi cavolo è, Cusenza?». Guido Podestà, presidente della Provincia, reagisce così quando ieri le agenzie di stampa battono le intercettazioni in cui Giovanni Cusenza - foggiano di San Giovanni Rotondo, quarantanni e parlantina sciolta - si vantava «con Podestà io sono culo e camicia». Macché, fa sapere Podestà; mai stati amici, mai rapporti, mai nemmeno conosciuto. E mentre le agenzie divulgano la smentita di Podestà, il povero Cusenza fa il suo ingresso in contemporanea a San Vittore ed in un Olimpo ormai abbastanza affollato: quello dei «trombati nonostante». Degli aspiranti politici che a Milano e nellhinterland hanno pensato di sfondare come avviene nel sud della Nazione, cercando i voti nel mondo del crimine. E hanno dovuto dolorosamente scoprire che la mafia e la ndrangheta a Milano ammazzano e fanno i soldi, corrompono e taglieggiano. Ma quando si tratta di eleggere i loro candidati vanno incontro quasi sempre a dei flop senza appello.
Cusenza ha dovuto impararlo sulla propria pelle. Nel 2009 per essere eletto consigliere comunale a Cormano nelle liste del Pdl era andato a bussare alla porta di Fortunato Valle, boss della cosca calabrese che si è mangiata Vigevano e che ha filiali in tutto lhinterland milanese. Roba grossa. Uno direbbe: elezione assicurata. Invece niente da fare. Trombato e malamente, una manciata di voti. Ma, va detto, il compaesano di Padre Pio non è stato lunico a provare sulla sua pelle la scarsa affidabilità elettorale della potente famiglia Valle. A provare lamaro sapore della sconfitta è stato - nella stessa tornata elettorale - in prima persona uno degli eredi del clan: Leonardo Valle, figlio del patriarca Francesco. Anche lui invogliato dalla carriera politica, e anche lui sostenuto alacremente dalla «famiglia», che per questo mette in moto tutto il suo sistema di relazioni e di influenze. Leonardo Valle lanno scorso si candida al consiglio comunale di Cologno Monzese, nelle liste dei Riformisti di area socialista. Lo mettono un po in basso, al numero 27, ma il candidato e la sua famiglia sono convinti di avere lelezione in tasca. Peccato che quando si vanno ad aprire le urne, arriva la doccia fredda: a scrivere «Valle» sulla scheda sono la miseria di ottantatré elettori. Roba da psicodramma. Tutto qui, il potere politico della malavita organizzata al nord?
Per consolare i due candidati sfortunati, si potrebbe ricordare che altri, prima di loro, e dai nomi ancora più illustri, avevano dovuto conoscere lamaro sapore della sconfitta «nonostante». Basti pensare a Toni Carollo, giovane e brillante rampollo della famiglia mafiosa di Resuttana, che agli inizi della sua carriera milanese si era candidato per la Democrazia Cristiana, anche lui a Cologno Monzese: spese un sacco di soldi, fece ricevimenti in abito bianco, e incassò lo zero virgola dei voti. Poco meglio andò ad Aslam Pignatelli detto Jimmy, socialista, che per riconquistarsi la poltrona di consigliere comunale a Magenta andò a bussare alla porta del clan palermitano dei Matranga: gli promisero trecento voti sicuri, ma Pignatelli è ancora lì che li aspetta. E come non parlare del leggendario Angelo Fiaccabrino, socialdemocratico, che avrebbe dovuto essere eletto a occhi chiusi: dalla sua parte non aveva solo la massoneria ma anche i gangster dellAutoparco di via Salomone, il coacervo di affari, delitti e misteri più inquietante della Milano alla fine degli anni Ottanta. E invece? Trombato pure lui.
Insomma, un disastro. Cè un solo posto, intorno a Milano, dove i clan malavitosi hanno da sempre governato un pacchetto di voti sufficiente ad eleggere un loro candidato, ed è Buccinasco. Ma Buccinasco è un mondo a parte, un lembo di Aspromonte trapiantato in Lombardia («unaltra Platì», la definì uno che la sapeva lunga). Per il resto, qui, la mafia sembra fare fatica a fare politica in presa diretta, perché diversi che al sud sono il suo rapporto col territorio, la sua visibilità, il suo potere intimidatorio. La mafia imprenditrice viaggia sotto traccia, e questo ha vantaggi e svantaggi.
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