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Scarcerati grazie a falsi certificati E in prigione ci finiscono i medici

da Roma

Falsi certificati per ottenere la scarcerazione. In manette due medici del policlinico Gemelli, assistenti sociali, esponenti della criminalità organizzata nonché camorristi di rango. Come Giorgio Lago, il boss di Pianura protagonista con l’omonimo clan della faida che ha insanguinato Scampia. Oltre un anno di indagini per la squadra mobile romana su un traffico di false attestazioni sanitarie rilasciate in cambio di denaro. Ieri i mandati di cattura firmati dal gip Cecilia Demma per 12 persone: fra gli indagati il medico Armando Colombo Taranto, responsabile dell’ambulatorio psichiatrico per alcolisti e tossicodipendenti del Gemelli e la sua assistente Paola Di Masci che, con la consulenza di Armando Urbani, 59 anni, psichiatra, procuravano ai detenuti falsi attestati di tossicodipendenza, alcolismo o gravi forme di depressione. In carcere per corruzione e falso ideologico diversi pregiudicati: oltre a Lago, Fulvio Giordani 54 anni di Roma, Marco Dell’Unto, 33 anni originario di Latina, Candido Norelli, 61 anni, proveniente da Melizzano (Benevento), Diego Castellani, romano di 25 anni, Stefano Fantauzzi, 24 anni di Roma, Miriam Bernardini Codrignani, 29 anni di Napoli, Carmine Fasciani, 60 anni, originario di Capistrello ma da tempo trapiantato a Ostia.
Secondo gli inquirenti ai detenuti venivano chiesti dai 300 ai 5mila euro per ottenere, per sé o i loro familiari, pene alternative alla galera. I sanitari arrestati agivano all’interno del day hospital di psichiatria e tossicodipendenza dell’ospedale romano. Qui, secondo il pm antimafia Diana De Martino che ha coordinato le indagini, la centrale operativa del gruppo. Secondo gli inquirenti, alcuni criminali come Lago si erano costituiti con la certezza di ottenere subito la documentazione falsa e quindi la libertà. Prima di loro, del resto, c’erano riusciti personaggi eccellenti della «mala» romana. Come i boss della banda della Magliana Maurizio Abbatino e «Marcellone» Colafigli, trasferiti grazie a false perizie in cliniche e ospedali, per poi svanire nel nulla. L’«operazione escamotage» nasce quasi per caso, da un semplice controllo della polizia su una cartella clinica visibilmente contraffatta dalla Di Masci e arrivata al Tribunale di Civitavecchia. Il primo stralcio d’indagine viene poi trasferito alla Procura di Roma. Vengono alla luce decine di casi a dir poco sospetti, tutti partiti dalla struttura parallela messa in piedi al «Gemelli» con l’aiuto esterno del professor Urbani, da tempo impegnato in comunità terapeutiche e strutture private di recupero per tossicodipendenti.
Sempre secondo gli uomini della mobile, i sanitari sotto accusa sarebbero arrivati a minacciare una spedizione punitiva contro uno dei clienti che non si decideva a pagare la parcella pattuita.

Per farsi perdonare, l’ex galeotto si sarebbe poi presentato con un cesto natalizio e la Di Masci, infuriata, gli avrebbe detto che non se la sarebbe certo cavata con così poco. Durante un’intercettazione gli agenti scoprono i trucchi per superare i test medici. Come quello di ubriacarsi o simulare forti stati depressivi.

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