La batosta c'è stata, e pesante: quel 66% di voti a Nicola Zingaretti (ma i conteggi, come in Sardegna, ieri sera erano ancora provvisori) segna in modo inequivocabile la fine dell'era renziana nel Pd.
Un'era, dicono oggi alcuni dei supporter dell'ex premier fiorentino, che forse non andava trascinata così a lungo, tenendo il Pd: «Dopo il 4 marzo avremmo dovuto accettare il patto interno e investire Gentiloni del ruolo di reggente del partito, sostenuto da tutti. Così il Pd avrebbe avuto un volto e un profilo riconoscibili, e si sarebbe potuto organizzare il congresso in modo più ragionato. Ma Matteo rifiutò». Del resto lo stesso candidato alle primarie Roberto Giachetti, renziano doc, ha più volte ripetuto in queste settimane che «il congresso andava fatto subito dopo le dimissioni di Renzi, e non a un anno intero di distanza. Ma rimasi solo a chiederlo». Si preferì, Renzi in testa, la strada del rinvio, lasciando il partito a galleggiare, sballottato dai flutti. E dopo dodici mesi il «popolo del Pd» sembra essersi ribellato anche a questo, e ha scelto il candidato che segna la cesura più netta con la stagione di Matteo Renzi.
Il quale, con grande fair play, ha plaudito alla vittoria e escluso quel «fuoco amico» che invece lcolpì spesso e volentieri la sua segreteria. Ieri però, in casa renziana, si tiravano le somme della débâcle: le «truppe» sono decimate. Nell'Assemblea nazionale, su un migliaio di membri, Renzi potrà contare sulla lealtà dei 140 eletti legati al candidato Roberto Giachetti, mentre i renziani legati alla mozione di Maurizio Martina (capifila Lotti e Guerini) saranno assai pochi. Negli organismi dirigenti la maggioranza sarà a prova di bomba. E le prime mosse di Zingaretti fanno capire che il nuovo segretario, che è stato ben attento ad evitare ogni conflitto con Renzi, cercherà di lasciargli anche poco spazio politico. L'investitura di Gentiloni come presidente del Pd ed eventuale candidato premier, il tam tam sulla candidatura di Carlo Calenda come capolista alle Europee, il «no» secco alle aperture di credito ai Cinque Stelle, e soprattutto la prima uscita pubblica da leader a fianco di Sergio Chiamparino, per proclamare il sì alla Tav: tutte scelte che non prestano il fianco alle critiche renziane e che evitano di schiacciare il «nuovo Pd» sulla sinistra. Non a caso, ieri, ad essere su tutte le furie con Zingaretti erano quelli della sinistra radical e di Leu.
Zingaretti, che negli ultimi mesi ha costruito anche un filo diretto con il Colle, è convinto che già a giugno, dopo il Def, sia assai probabile una crisi di governo, che rischia di sfociare presto in elezioni anticipate. Bisogna dunque farsi trovare pronti, e ben posizionati. «Il problema che dobbiamo porci - dice il renziano macronista Sandro Gozi - a cominciare dal segretario, è come tornare maggioritari in un sistema proporzionale, offrendo rappresentanza a settori produttivi, moderati, liberademocratici che oggi non la hanno. Non lo si fa appiattendosi a sinistra sul corbynismo, e credo che Zingaretti lo capisca».
Cosa faranno quindi Renzi e i renziani? Per ora nulla: «Di qui alle Europee ci sarà unità e compattezza, sulla spinta del risultato delle primarie», assicura Ivan Scalfarotto. «Poi, tutto dipenderà dalle scelte che verranno fatte: se il Pd virasse indietro verso i Ds, se inseguisse le parole d'ordine del corbynismo, se - chessò - votasse il Reditto di cittadinanza o aprisse il dialogo con i populisti, Lega o grillini non importa perché sono uguali, allora si creerà inevitabilmente una spinta centrifuga». Come è successo nel Labour, con la fuoriuscita dei moderati anti-Corbyn.
Ma se già alle Europee il Pd zingarettiano si mostrasse in salute, superando di slancio i minimi del 2018 e mostrandosi capace di allargare i consensi non solo nella vecchia sinistra, il fantasma della «scissione» renziana si allontanerà.
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